Chi è in cerca di una buona legge sul fine vita che cosa può aspettarsi oggi nel nostro paese? Una legge seria e civile o un nuovo esempio di legislazione ideologica, sul modello della legge 40 sulla procreazione assistita? A breve dovrebbe arrivare nell’aula di Montecitorio – l’appuntamento era inizialmente previsto per il 30 gennaio – il testo unificato sul testamento biologico in discussione alla Commissione Affari Sociali, frutto di un lungo lavoro di mediazione su quindici diverse proposte. È facile prevedere una bagarre tra i partiti (ben 2.800 gli emendamenti presentati!) e una spaccatura nella maggioranza. Ci troviamo dinanzi, ancora una volta, a dure prese di posizione che intendono escludere il valore vincolante del testamento biologico e la possibilità di rinunciare a trattamenti come l’alimentazione e l’idratazione forzata, cercando di imporre un punto di vista che mortifica la libertà delle persone, negando di fatto il loro diritto all’autodeterminazione e, nel contempo, ignorando le indicazioni del mondo scientifico.
Si è più volte ribadito, infatti, che alimentazione e idratazione artificiali, lungi dal rientrare nell’ordinaria assistenza come un mero sostegno vitale – sottratte, quindi, alla possibilità di scelta – sono atti terapeutici veri e propri che richiedono un’elevata competenza (posizionare una cannula nutrizionale nello stomaco è un atto difficile che solo chirurghi e medici addestrati sono in grado di compiere) e che il paziente, dunque, ha il diritto di rifiutare.
Occorre aggiungere che il quadro delle norme che consentono fin d’ora, in Italia, di rifiutare le cure è chiarissimo. Basti citare una serie di norme: dagli articoli 2,13 e 32 della Costituzione alla Convenzione di Oviedo sui diritti umani e la biomedicina (1997), dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea al Codice di deontologia medica. Da questo quadro il Parlamento non può prescindere. Una buona legge sul testamento biologico dovrebbe, pertanto, avere come obiettivo quello di riconoscere un diritto del cittadino, consentendo a ciascuno di esprimere liberamente le proprie volontà circa i trattamenti ai quali desidererebbe o non desidererebbe essere sottoposto nel caso in cui – nel decorso di una malattia o a causa di traumi improvvisi – non fosse in grado di esprimere il suo consenso. Ma questo cammino non sarà facile da percorrere. Secondo un copione ben collaudato, si riparla del tutto a sproposito di «suicidio di Stato» e di «eutanasia passiva» e, ad aggravare ulteriormente il clima, contribuisce anche la severa critica rivolta alla classe politica da parte della Conferenza Episcopale di occuparsi di una legge sul testamento biologico anziché dell’emergenza lavoro e delle famiglie in difficoltà. Un monito francamente poco comprensibile dal momento che la questione del fine vita è un tema ineludibile e di grande rilievo nell’agenda politica in quanto coinvolge la vita delle persone, gli affetti familiari e affronta dimensioni importanti sia per la società che per i singoli, come il dolore, la dignità dell’esistenza, le ragioni stesse del vivere. In questo senso, l’impegno a favore del testamento biologico dovrebbe essere sostenuto, a mio avviso, da credenti e non credenti. Un impegno comune volto a elaborare regole per conciliare il diritto individuale di rifiutare le cure – peraltro costituzionalmente garantito – con l’obbligo di favorire tutte le cure necessarie alla persona malata, obbligo che non si deve tuttavia spingere in alcun modo alla tortura dell’accanimento terapeutico.
È così lontana, per il nostro paese, la possibilità di avere una posizione della CEI analoga, ad esempio, a quella della Conferenza Episcopale Spagnola che, presentando quasi dieci anni fa, il «testamento vital», scriveva che la vita «in questo mondo deve considerarsi un dono e una benedizione di Dio ma non è il valore supremo e assoluto», sottolineando che «la volontà della persona deve essere rispettata come se si trattasse di un testamento» a ribadire il carattere vincolante delle posizioni espresse? Si può altresì ricordare che in Germania esistono, fin dal 1999, le cosiddette «disposizioni del paziente cristiano» elaborate dalla Conferenza Episcopale Tedesca e dalla Comunità delle Chiese Cristiane, che prevedono la possibilità, per chi le sottoscrive, di richiedere il non inizio o l’interruzione di trattamenti come la nutrizione artificiale, la respirazione assistita etc. quando «ogni terapia prolungherebbe solo il processo del morire». Una sobria lezione di civiltà che fa ulteriormente risaltare l’asprezza dello scontro ideologico che da noi rischia di accompagnare l’iter della legge.
Girolamo Cotroneo dice
Brava Luisella, brava come sempre. Come per Dino: non sempre condivido tutto, ma mi fai pensare. Ciao, Girolamo Cotroneo.
Laura Paoletti dice
Grazie a Francesco D’Agostino per l’utile sottolineatura circa l’utilizzo della medicina palliativa per liberare dal dolore il paziente non necessariamente terminale.
Non c’è stato tuttavia alcun riferimento alla sedazione come atto eutanasico, bensì come induzione ad un sonno profondo che, nel moribondo, è, va ripetuto, perdita di coscienza. Definitiva o meno.
Nei reparti di medicina palliativa (che, non casualmente, sono distaccati dai normali reparti terapeutici di un ospedale) quando il medico avverte che i parametri vitali stanno crollando, dunque che il paziente STA PER MORIRE, viene proposta la sedazione. A riprova di quanto affermato che non è la sedazione a causare la morte ma soltanto a procurarne il passaggio dal sonno.
Francesco D'Agostino dice
Temi come quelli delle cure palliative, del testamento biologico, della sedazione profonda andrebbero affrontati solo partendo da faticose, pedanti, ma anche necessarie distinzioni, che in genere vengono trascurate, come se fossero irrilevanti: ma (si sa!) in rete e nei media bisogna essere brevi e concisi!
Ad es.: possiamo anche “unire” in un titolo (vedi sopra) il testamento biologico e il diritto di morire, ma così si fa intendere che esista un “diritto di morire” (il che non è vero) e che il testamento biologico serva a dare concretezza a questo diritto. Invece: ciò che esiste è un diritto (costituzionale) a rinunciare alle terapie: scelta che a volte può essere rapidamente letale, a volte però no: ad es. posso rinunciare alla chemioterapia, che statisticamente mi dà una speranza di vita di cinque anni e affidarmi a terapie meno efficaci che statisticamente possono darmi una speranza di vita di due anni/due anni e mezzo.
Ancora: si confonde la medicina palliativa con la sedazione profonda: errore! Né l’una né l’altra sono necessariamente finalizzate alla morte, ma solo a consentire la migliore tolleranza del dolore. C’è -ed è preziosa- una medicina palliativa per malati cronici non terminali ed è ingiusto far passare il medico palliativista per colui che lavora solo su malati in agonia. Aggiungo: la sedazione profonda in sé e per sé non è MAI eutanasica, per la semplice ragione che, in linea di principio, dovrebbe essere sempre possibile interromperla e ridare al malato la coscienza (esistono anche indicazioni cliniche in tal senso). Non nego chiaramente che a volte la sedazione profonda (cfr. il caso Welby) sia finalizzata a interventi di eutanasia passiva o addirittura attiva. Ma mantenere le distinzioni, in questi ambiti, è di assoluta importanza.
Avverto, insomma, con rammarico l’incredibile imprecisione che continua a caratterizzare il dibattito bioetico nel nostro paese.
Luisella Battaglia dice
Condivido pienamente il rammarico –e aggiungerei lo sconforto–per . Non a caso, al mio impegno professionale, accademico e saggistico, si è affiancato fin dal 2000 quello di organizzare–col patrocinio del Comitato Nazionale per la Bioetica—delle Conferenze Nazionali per le Scuole (cui D’Agostino ha spesso partecipato), al fine di promuovere una alfabetizzazione della cultura bioetica e favorire un confronto ragionevole e pacato, soprattutto non viziato dal furore ideologico. Francesco D’Agostino dovrebbe peraltro sapere, per una lunga esperienza giornalistica che ritengo eguagli la mia (ormai trentennale), che la titolazione di un articolo è sempre frutto di una scelta redazionale non concordata con l’autore. Non avrei, infatti, mai parlato di un ‘diritto a morire’ ma, piuttosto, di una rinnovata ars moriendi che inviti ciascuno, grazie anche al testamento biologico, a riprendere possesso della propria morte, seguendo l’ispirazione della bellissima poesia di R. M. Rilke: “O Signore, dà ad ognuno la propria morte, quel morire che fiorisce da una vita in cui si è trovato amore, senso e pena. Giacché noi siamo soltanto il guscio e la foglia. E’ la grande morte che ognuno ha in sé, il frutto attorno a cui tutto gira”.
Laura Paoletti dice
Bell’articolo equilibrato quello di Luisella Battaglia, nel dibattito sovente dai toni esasperati del fine vita.
E in un certo senso sorprende che le estremizzazioni della discussione non sfocino addirittura nella messa in questione delle cosiddette cure palliative che altro non sono se non una scelta di come morire. La sedazione, infatti, non muta il se e il quando, tuttavia decide la perdita di coscienza. Sottraendosi al dolore, così come l’ammalato implora, e immergendosi nel sonno liberatorio, colui che soffre in quel momento prende congedo. Continua respirare, mentre fisiologicamente il suo organismo elabora la fine, ma con l’interruzione della coscienza vigile, il distacco dalla vita è lì che avviene. Coloro che, al suo capezzale, lo amano, è in quel momento che gli danno l’addio.