Nel suo elegante e meditato editoriale, L’eredità mitica del ’68: cosa resta e cosa fare di quel che resta, Laura Paoletti scrive che «si tratta di capire se davvero sia possibile una ‘storia’ del tutto scevra dal ‘mito’ o se questa stessa divisione, se assunta in modo troppo netto, non finisca per riapplicare lo stesso schema che denuncia, e per collocare i critici del mito dalla parte giusta della storia e dell’analisi storica (magari sostituendo il Liberalismo all’Antifascismo)». Comprendo il dubbio e, soprattutto, la messa in guardia da una demolizione del mito del ’68 – peraltro non registrabile in tutti i contributi del fascicolo di «Paradoxa» – suscettibile di convertirsi in un antimito made in Liberalism: immagine speculare dell’altro ma, in sostanza, parte dello stesso universo semantico, come i Guelfi e i Ghibellini lo erano dell città-stato medievale. Non mi ritengo touché ma un chiarimento è necessario da parte mia.
Innanzitutto, un rilievo di tipo metodologico: il mito (come l’antimito) è un aspetto inevitabile – o, forse, sarebbe meglio dire, una risorsa – degli attori politici e sociali che fanno la storia e di quanti li combattono per come la fanno – e in tal modo, contribuiscono anch’essi a farla. Per l’osservatore, che ha il dovere dell’imparzialità – anche se poi non riesce ad essere super partes – il mito, però, non dovrebbe in alcun modo inframettersi nella descrizione e nella valutazione degli eventi. Il momento più rilevante della cultura italiana del secolo scorso – quello che ci ha riportato all’attenzione del mondo occidentale – è stato la storiografia revisionistica sul fascismo inaugurata da Renzo De Felice, peraltro profondamente influenzato dagli scritti di Augusto del Noce. Una caratteristica saliente di quella storiografia era costituita dal bando dato a tutti i ‘miti’e ‘antimiti’ – anche a quello liberale, che vedeva nel fascismo una parentesi o il segno della malattia mortale dell’Europa, pur se considerato meno ingannevole rispetto a quello azionista, di marca gobettiana e bobbiana, che vedeva nel fascismo una rivelazione di mali antichi, un’autobiografia della nazione, o a quello marxista che spiegava il fascismo come la dittatura di un capitalismo arretrato, costretto a sopprimere la democrazia per non essere sopraffatto dall’ascesa del proletariato. Che non pochi liberali si siano poi riconosciuti nell’interpretazione defeliciana è un fatto ma da non esagerare, giacché la demonizzazione del regime continuò ad alimentarne l’antimito anche fra molti convinti sostenitori della ‘società aperta’ (c’è una spiegazione per questo ma non sto a ripeterla, avendone già trattato in altre sedi).
Fatta questa premessa metodologica, dico subito – in riferimento al mio intervento, Il ’68 e la Resistenza – che non intendevo affatto ricostruire il ’68 italiano in tutta la sua complessità ma, come scrive Corrado Ocone, nel suo post all’editoriale di Laura Paoletti, «inserire la vicenda del nostro sessantotto nella più generale, e atipica, storia politico-culturale italiana, enucleando un filo di discorso, ma non disconoscendo che possano esservene altri». Dell’esistenza di altri ‘fili di discorso’ ero così convinto che, come curatore del fascicolo in questione, avevo invitato diversi storici, lontani anni luce dai miei metodi e dalla mia cultura liberale, a inviare le loro considerazioni ‘apologetiche’, che davo per scontate. Purtroppo alcuni non mi hanno neppure risposto, qualche altro si è impegnato a scrivere il saggio che gli veniva chiesto, ma poi non lo ha fatto.
Per quanto mi concerne, però, era ben lungi da me l’idea di adottare il criterio crociano del ciò che è vivo e ciò che è morto nell’eredità del Sessantotto: lo lascio volentieri ai buonisti di ogni famiglia ideologica, che, rilevo incidentalmente, vi fanno ricorso a ogni piè sospinto ma si guardano bene dall’applicarlo ai regimi a loro indigesti. A essere sinceri, non sono affatto convinto che il ‘positivo’ di cui si dà atto al ’68 – cito, per tutti, la critica dell’autoritarismo e il riconoscimento dei diritti delle donne, avvenuto tuttavia negli anni’70 – non si sarebbe verificato ugualmente, magari un po’ più tardi. Mi rendo conto, però, che si tratta di congetture inverificabili: è come chiedersi, si licet magnis componere parva, se senza la presa della Bastiglia, la Francia si sarebbe inoltrata sulla via della modernità politica. In ogni caso, ripeto, ero ben lontano dal cerchiobottismo dei benpensanti – sociologi, opinion maker, ospiti fissi dei salotti televisivi – che non si son fatti sfuggire l’occasione di pronunciarsi sul ’68, gratificandoci della loro superiore saggezza: «sì, il movimento è degenerato nell’estremismo – anche sovversivo – ma quante buone ragioni, quanti ideali – poi perduti – aveva manifestato nella sua fase mattinale!».
Il taglio del mio contributo è nato da una domanda che mi vado ponendo da anni: perché la nostra civic culture è così diversa da quella dei paesi democratici europei e nord-atlantici? E in cosa consiste la sua radicale diversità? La risposta che mi sono dato può essere così sintetizzata (e semplificata): viviamo nell’«aiuola che ci fa tanto feroci» per la nostra incapacità di prendere sul serio il pluralismo. In virtù di una Bildung non solo scolastica, segnata da un cattolicesimo non sfiorato dal tormento e dall’angoscia luterana e da un illuminismo assimilabile a un razionalismo cartesiano secolarizzato (e lontano, quindi, dall’empirismo scettico anglo-scozzese), riconosciamo solo i valori orientati dal vento della Storia e consideriamo negativo tutto ciò che proviene dal passato storico (non quello mitico ma quello reale, dei nostri nonni, del mondo di ieri) – autorità, onore, comunità di destino, disciplina etc. etc. Per noi, la metafora milliana degli dei in conflitto significa solo che le battaglie politiche si svolgono tra le forze del bene e quelle del Male dove il richiamo al pluralismo altro non è che la testa d’ariete per abbattere le mura della Tradizione. Si pensi alle versioni ideologiche dell’antropologia e dell’etnologia, che furoreggiavano nel ’68 e che meriterebbero uno studio specifico: riconoscere eguale se non superiore dignità alle culture e ai valori non occidentali sembrava la strada maestra per mettere in crisi le nostre certezze. E su quella strada si era andati così avanti da indurre lo stesso Claude Lévi- Strauss a chiedersi: «in un mondo così variopinto perché non dovremmo conservarci i nostri colori?»
Lungi dall’essere la consapevolezza hegeliana che la tragedia umana non sta nello scontro tra verità ed errore ma nel confronto tra due verità, il nostro pluralismo taroccato significa solo che a nessuno è impedito di fare un pellegrinaggio a San Giovanni Rotondo, ma che se un domani, anche in Italia, come in certe scuole inglesi, si vietasse alle allieve di entrare in aula con le gonne, ritenute offensive per gay e transgender, le ragazze non sarebbero più libere di vestirsi come le mamme e le nonne, in virtù dei ‘nuovi diritti’ universali (sic!)
Non è stato, certamente, il ’68 la causa del male oscuro dell’ideologia italiana, ma, in quegli ‘anni formidabili’, cattivi umori diffusi qua e là e che non risparmiavano neanche gli esponenti del liberalismo laico (e anticomunista) esplosero come un gigantesco fuoco d’artificio che avrebbe segnato per molto tempo il nostro modo di pensare e di fare politica. In fondo, ancora oggi, se guardiamo al dibattito politico sotto i nostri occhi, la trasformazione degli avversari politici in nemici della Costituzione e della Civiltà è un riflesso condizionato che non si manifesta all’improvviso.
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