Non si sfugge al fare i conti con l’età, intesa non soltanto in senso biologico, ma anche come insieme di circostanze e di esperienze. L’età anagrafica è assunta da ciascuno in modi radicalmente diversi di vedere il mondo e quindi vivere e operare in esso.
Il ventaglio dei modi di assumere la propria età, dall’infanzia alla vecchiaia, si allarga progressivamente fino ad un certo punto, per poi tornare a restringersi, anche se non del tutto. Da un lato, la giovinezza sembra essere contrassegnata dal carattere della potenzialità, dall’altro, nel vecchio, da quello della ricchezza acquisita. Caratteri, peraltro, che non possono escludersi a vicenda, pena il divenire entrambi un’astrazione. L’acquisto non è reale se non contiene in sé il momento dinamico dell’acquisizione e il potenziale rimane velleitario se la potenzialità non passa all’atto. I due momenti, possibilità aperta e realtà acquisita, devono quindi compenetrarsi, senza confondersi, ma conservando un equilibrio che varia col tempo.
Se nel pensiero classico, Stoici o il ciceroniano De senectute a parte, la vecchiaia è perlopiù vista come una sciagura che induce a giudicare amato dagli dei chi muore giovane, successivamente, a partire da considerazioni più profonde metafisico-religiose e psicologiche, si sviluppa una considerazione più ottimistica della vecchiaia.
Il mutamento non potrebbe avvenire senza la dottrina dell’immortalità dell’anima, intesa non solo come ombra, al modo degli antichi, ma come condensato di esperienze che non va perduto.
Il modo di questo conservarsi non può, evidentemente, essere descritto in termini puramente razionali, ed è costantemente designato dalla dottrina cristiana come una speranza, alla maniera di altri dogmi imposti come certezza di fede.
In una considerazione non cristiana della situazione, l’oggetto della speranza può assumere i tratti più diversi, che vanno dalla conservazione dell’identità personale fino a certe concezioni buddistiche della conservazione del vero essere nel Nirvana: conservazione condizionata, precisamente, dal perdersi di qualsiasi determinazione particolare.
Queste, ed altre concezioni, in un modo o nell’altro, suppongono che il passato si conservi non nel tempo, ma in una dimensione di là del tempo: sia esso il Paradiso, il Nirvana e così via.
Anche in una immanentizzazione radicale il tempo svolge un ruolo determinante, nel senso che la nostra stessa esistenza temporale non è tutta contenuta nel tempo: se non altro perché, se non avesse altra dimensione che quella temporale, non potremmo neppure prenderne coscienza. Ne viene che l’esperienza vissuta, in quanto vissuta, è già essa stessa, in qualche modo, di là del tempo e quindi, usando con precauzione questa parola, ‘eterna’.
Qualora giungessimo a sentire così la vita vissuta, l’esperienza di ciascuno non sarebbe più un valore destinato a perdersi nel momento stesso in cui viene acquisito, bensì una ricchezza che entra a costituire la nostra propria persona.
Di conseguenza, sebbene non possiamo più, da vecchi, rivivere ciò che abbiamo vissuto, e ripassare per i luoghi temporali attraversati (di qui la ‘nostalgia’); e sebbene si diradino le possibilità di altre avventure, possiamo, tuttavia, consistere anche del passato come pienezza acquisita. Comunicabile, eventualmente, ad altri attraverso impliciti insegnamenti e, più ancora, attraverso atteggiamenti e relazioni affettive.
Va sottolineato, però, che questo tipo di personalità anziana è statisticamente raro, seppure rappresenterebbe un autunno dell’esistenza dai colori caldi, nonostante che vada raffreddandosi la temperatura.
Oggi, una considerazione antropo/sociologica rileva che risulterebbe improprio parlare univocamente di ‘vecchiaia’, come si fa anche nell’argomentazione stessa fin qui svolta. Spostandosi molto in avanti il termine della vita, si distinguono diverse fasi della cosiddetta terza età in cui una sorta di irrevocabilità del ‘fare’ è relegata ad un’età molto avanzata.
Di fatto, il passaggio dall’adulto al vecchio vero e proprio non è, perlopiù, affatto lineare. Condizioni economiche, salute, fisicità, stato mentale fanno sì che la persona anziana avverta lo scompenso tra il suo modo di sentire/si e i dati anagrafici.
I cambiamenti avvenuti in seno al concetto stesso di famiglia, talvolta con una sottrazione, talaltra con un ampliamento dei ruoli tradizionali, contribuiscono alla spoliazione delle sicurezze delle codificazioni, ma anche all’apertura di tratti di libertà con la possibilità di scoperte stimolanti.
Ne consegue che l’odierna età matura contiene spezzoni delle età precedenti. Emozioni e aspirazioni a cui oggi non si è disposti a rinunciare nonostante il passare del tempo e che aprono a codici di condotta e a stati mentali inediti.
Lo scompenso, che detta disagio ma altrettanta euforia, è determinato dalla sopravvivenza in età avanzata dei tratti tipici delle stagioni esistenziali precedenti: aspettative, progettualità, voglia di vivere smentiscono gli anni che si hanno.
D’altro canto, lo sguardo proteso non può evitare di soffermarsi nel cono buio del fine vita.
Come avverrà la nostra morte? La vecchiaia non può comunque sottrarsi a questo pensiero angoscioso: e, forse, la sua soglia vera e propria comincia col presentarsi insistito di questa domanda. Ineludibile e scandalosa.
Tolstoj (La morte di Ivan Ilijc) fa percorrere l’originario paradosso dell’inaccettabilità e infine della resa consapevole al protagonista del suo mirabile racconto nella cui vita, con la malattia, fa incursione un pensiero tremendo, un pensiero che non può concepire e lo dispera.
L’Ivan Ilijc di Tolstoj aveva sempre saputo di essere mortale, certo, e il sillogismo Caio è un uomo – gli uomini sono mortali – dunque Caio è mortale, gli era parso assolutamente giusto nei confronti di Caio, cioè dell’uomo in genere.
«Ma egli non era Caio, né un uomo in genere …egli era un essere assolutamente, assolutamente a parte da tutti gli altri: egli era Vania, con la mamma, col papà, con Mitia e Valodia… Con tutte le gioie, i dolori gli entusiasmi dell’infanzia, della adolescenza, della gioventù. Forse che Caio conosceva quell’odore di cuoio della palla che piaceva tanto a Vania… forse che Caio era stato innamorato come lui… Forse che Caio poteva condurre a termine l’istruzione di un processo?»
Ivan Ilijc cerca di riappropriarsi della propria vita, tentando di ritrovare il flusso dei suoi pensieri e delle sue sensazioni, cercando di scacciare il pensiero della morte come cosa menzognera. Invano.
Tolstoj fa attraversare al suo protagonista un doloroso processo di introspezione, in un progressivo colloquio con se stesso che lo conduce dalla primitiva inaccettabilità della fine al ‘consenso’ a lasciar andare la vita.
Tanto che Ivan Illjc giunge infine a chiedersi, a proposito della morte, se non sia «.. forse questa la sola cosa vera».
Dino Cofrancesco dice
Una riflessione profonda come questa e tanto ricca di autentica umanità e di esperienze vissute ,non si commenta. Rilevo solo che oggi il dramma della vecchiaia consiste nella rottura dell’armonia
prestabilita tra corpo e mente.A volte ci si sente come un adolescente nel corpo del nonno.