[risposta a Gianfranco Pasquino, 1/07/2019]
Caro Professor Gianfranco Pasquino, avendo apprezzato nel tempo la tua ironia considero il quesito una domanda retorica. È sotto gli occhi il ritardo drammatico di teoria e pensiero che questa mia parte, e partito, è venuta maturando non da un paio di semestri, ma di lustri. E la ragione non è una, nel senso di singola. Sono diverse, per la verità neppure taciute ma descritte a più riprese. Anche (senza presunzione) in un paio di miei libretti clandestini.
Primo limite: aver fondato il Pd sull’onda di un “mito” (diciamo così), l’unità dei ceppi del riformismo italiano, ignorando allegramente lo snodo dell’identità. La cosa si è spinta al punto – non me lo invento – di aver sentito esponenti di allora spiegare che l’identità del nuovo soggetto risiedeva nella scelta statutaria delle primarie aperte per la scelta del leader. Bon, è successo anche questo, ma lasciamolo a sfondo e avviciniamoci all’oggi. Secondo vizio d’impianto. Una volta compreso che il tema identitario – chi sei, chi vuoi rappresentare e sulla base di quali obiettivi – non era riducibile alla ginnastica dei gazebo la risposta offerta ha ripiegato sulla stesura di corposi programmi di governo. Per l’intero decennio l’arte del programmismo ha supplito in buona misura al vuoto di analisi (comporre decaloghi di cose da fare non è l’esatto equivalente di una filosofia da dire). Ma la supplenza si è rivelata fragile, nel senso di reggere la prova in caso di successo nelle urne salvo trovarsi spiantata, e spianata, all’indomani di ogni capitombolo nel consenso.
Terzo e più serio errore, tutto sommato frutto di accidenti più che di volontà, aver attraversato nello stesso arco di tempo, l’ultimo decennio, la più complicata e profonda rivoluzione nell’assetto del capitalismo contemporaneo. L’elenco è noto: la crisi peggiore del secolo, l’impoverimento della classe media e il vacillare di ancoraggi della democrazia (risorse del welfare, miseria accresciuta, assenza di pratiche redistributive) a cui nel caso nostro si sono sommati un fermo-immagine della produttività, questa da più tempo ancora, e un limite strutturale alla crescita. Aggiungiamo l’impatto dei nuovi processi di “sorveglianza” (qui se ne parla poco, ma il loro impatto è enorme), robotica e intelligenza artificiale, divorzio, anch’esso inedito, tra proprietà e profitto (leggasi la natura imprenditoriale di brand globali, da Uber ad Alibaba passando per Airbnb…). Il quadro che ne scaturisce è di una realtà sociale, economica e politica – come definirla? – effervescente, con noialtri a rimestare nell’armamentario di riti e stanche procedure.
Bene, detto questo, come si recupera il tempo perso e tutto il resto? Mi espongo alla più diretta delle critiche, quella da caciocavallo appeso, e dico per prima cosa rialzando l’asticella dell’ambizione. Se attorno a noi cambia il mondo, le forme del conoscere, consumare, produrre, scambiare relazioni, gerarchie sociali e modi di distribuzione, se la ricchezza si polarizza in Occidente mettendo a repentaglio molto più della sola equa distribuzione di beni, ma istituzioni e assetti della democrazia, allora il programmismo è semplicemente una cura omeopatica per ben altre necessità. In fondo, che si usi come esempio la Teoria Generale di Keynes o il Manifesto di Ventotene o anche quel saggio dal titolo formidabile (ma non diciamolo a Di Maio!), Abolire la miseria di Ernesto Rossi, nei passaggi decisivi quando un cambio d’epoca si è affacciato, personalità di buone letture e seria volontà si sono ingegnate a immaginare il mondo per come non era, combinando in forma creativa valori scolpiti, principi etico-politici e strategie di sviluppo. Hanno pensato un mondo almeno in parte diverso, e migliore, rispetto al loro. E così facendo, cioè anche così facendo, hanno contribuito a tracciare la storia (talvolta con la S maiuscola).
Ma ovviamente non basta. E allora serve avere la stessa disponibilità, e ambizione, nel rivedere più d’una delle categorie con le quali per un quarto di secolo la sinistra delle riforme ha pensato di aggredire il cambio d’epoca di cui sopra. Qui è il nodo della subalternità culturale della nostra parte, l’idea subita di una globalizzazione interpretata in chiave blairiana o clintoniana, ma a voler essere sinceri in parte anche ulivista. Con l’effetto di avere ritenuto frutto dell’inerzia, nel senso di inevitabili, processi sociali e di gestione delle strategie economiche e industriali che invece rispondevano a una definita visione politica e culturale. Potremmo riflettere sul senso, e le radici, del pareggio di bilancio in Costituzione o sulle riforme “strutturali” raccomandate ai paesi in grave dissesto, ma credo ci si sia intesi. Bisogna avere il coraggio di mutare l’ottica con cui abbiamo letto e analizzato processi assai avanzati. Penso, ma è solo un comparto, alla revisione necessaria del diritto dell’economia nelle sue diverse articolazioni. Aggiungo che forse la stessa esigenza investe l’insieme della cultura liberal-democratica alla quale più volte fai riferimento.
Infine il metodo. Questo lavoro, o anche solo parte di esso, può essere affrontato con successo dal Pd per ciò che è divenuto oggi e per la qualità d’insieme della sua classe dirigente? La risposta è no. Da soli non ce la possiamo fare e comunque saremmo condannati a coprire un pezzo soltanto della strada che serve. Col rispetto e la stima verso tante competenze, amministratori, sindaci, governatori, calati ogni giorno sui dossier del governo locale, noi abbiamo bisogno di disturbare chi per anni abbiamo lasciato in pace. A dirla tutta, non già per educazione, ma per timore di portarci dei competitori in casa. Schiettezza per schiettezza è stata una linea assurda. Fuori dal Pd e dai nostri limiti vive un mondo assai più dinamico e vitale di come lo rappresentiamo. Saperi e competenze ignorate e cresciute nel tempo della rete, discipline marginali e ora prepotentemente in campo, quella forza originale del civismo associato e dotato di modalità di partecipazione oramai sconosciute nella dimensione dei partiti. La Fondazione che stiamo provando a mettere in piedi vorrebbe fornire uno strumento per accostarsi a tutto ciò. Una piccola struttura affrancata dai riti romani e distribuita nei luoghi, città e non solo, dove da tempo manchiamo. Ma manchiamo nel pensarli quei luoghi prima ancora che nello starci. Stiamo avviando la macchina. Non è facile, è come se dovessimo riabilitare il fisico (che non è più lo stesso di una volta). Però ho l’impressione che altra strada non vi sia. E allora la chiusa non può che riprendere l’ultimo rigo tuo, caro Professore, e dirti che almeno vorremmo provarci. Col tuo interesse, s’intende, a darci una mano e anche qualcosa di più. Se tu non puoi escludere a priori di parteciparvi, io non posso garantirti a priori che ce la faremo. Ma stare fermi, quello sì, al punto dove ci troviamo non sarebbe un peccato, ma un errore.
Un caro saluto
Marta Regalia dice
Credo che questo passaggio sia da incorniciare: “Personalità di buone letture e seria volontà si sono ingegnate a immaginare il mondo per come non era, combinando in forma creativa valori scolpiti, principi etico-politici e strategie di sviluppo. Hanno pensato un mondo almeno in parte diverso, e migliore, rispetto al loro. E così facendo, cioè anche così facendo, hanno contribuito a tracciare la storia (talvolta con la S maiuscola).”
Una meraviglia per chi legge. Fa davvero venire voglia di rimboccarsi le maniche.