È stato bello, per me e per altri amici, ritrovarsi a parlare di Francesco a Nova Spes in occasione dell’inaugurazione del Fondo della biblioteca a lui intitolato e trasformare i ricordi di luoghi e momenti diversi in un’esperienza di convivialità del pensiero. Per me, in particolare, il sentimento della nostalgia rasserenata nell’affetto e quello della gratitudine continuano, mescolandosi, a illuminare tre aspetti che mi hanno sempre spinto a cercare il confronto con Francesco ogni volta che era possibile, a considerarlo l’interlocutore obbligato di una riflessione senza sconti e per questo preziosa sui temi più controversi della bioetica e della vita civile.
Il primo era la sua uggia per quello che definì il monolitismo (se non monoteismo) etico, contrapponendolo a un altrettanto insidioso politeismo. Non è un caso, a mio avviso, che una parte così importante dei suoi volumi sia andata a Nova Spes, nella quale ho sempre trovato un ‘tavolo’ di discussione caratterizzato proprio da questo stile: onestà intellettuale, passione per l’esplorazione dei territori apparentemente più lontani dal proprio, rifiuto dell’arroccamento pregiudiziale che immiserisce la pratica della riflessione critica in battaglia senza fine fra ‘parti’. Francesco è stato a lungo e da molti considerato l’esempio dell’intellettuale schierato, sempre pronto a fare un passo avanti quando c’era da affrontare un tema ‘divisivo’. Non si tratta, evidentemente, di farne il testimone incompreso di un latitudinarismo che corre sempre il rischio di diventare l’anticamera della confusione. Si tratta di riconoscere la continua moltiplicazione delle prospettive che fluivano, magari per essere scartate, dalla sua cultura prodigiosa, sostenuta da una curiosità onnivora. Una cultura che si manifestava come gusto per la provocazione ficcante (talvolta decisamente spiazzante…), come talento davvero unico nell’individuare in passaggi apparentemente periferici dell’argomentazione dei suoi interlocutori il punto di partenza di percorsi che nessun altro avrebbe potuto immaginare, oltre che lo spunto di obiezioni formulate con il sorriso dell’ironia e mai con la clava dell’aggressione verbale. Era questa capacità di far pensare, puntando al confronto e non alla soggezione, che ha sempre attratto una persona che, come me, non sempre era d’accordo con Francesco. E voglio citare, come esempio di questa apertura, la tavola rotonda organizzata da Nova Spes nel marzo 2009 con Sergio Belardinelli e Roberto Mordacci (oltre a noi due) sul tema Quando pensare diversamente non significa pensare male. Il confronto possibile tra i cattolici. Non voglio dire che l’amicizia con lui fosse più facile partendo da posizioni diverse. Certo, questa differenza non era mai un ostacolo.
Questa considerazione si lega al secondo aspetto che vorrei sottolineare. L’opera di Francesco è certamente una continua sollecitazione a cercare nell’antropologia l’ubi consistam della filosofia del diritto e della bioetica. Ma cosa significa parlare di antropologia? Non posso resistere alla tentazione di confrontare la conclusione di una riflessione di Francesco sul pluralismo culturale e l’universalità dei diritti con una pagina di quello che è forse l’ultimo scritto di Marco Maria Olivetti, il mio Maestro che tante volte ho incontrato insieme a Francesco al tavolo di Nova Spes. Francesco, mettendo in guardia dal rischio di considerare i diritti umani semplicemente al singolare o al plurale, perché nel primo caso gli uomini si ignorano e nel secondo si combattono (la tentazione di una indebita assimilazione), invitava a riscoprirne la dimensione duale e citava Panikkar, che invitava l’Occidente, che ha saputo porre con precisione la domanda ontologica (che cosa è l’essere?) e quella antropologica (che cosa è l’uomo?), a imparare finalmente a porre la domanda essenziale, che è quella relazionale: chi sei tu? Marco, denunciando la pretesa di padroneggiare nella conoscenza il ti esti del destinatario del dire, riconosceva nella pratica tele-fonica un significato etico universale: prima si dice «pronto!» (il me voici di Lévinas) e solo dopo «chi parla?». Per entrambi, ovviamente in modo diverso, valeva la centralità di questa dimensione relazionale, che implica un atteggiamento di umiltà. Francesco ha scritto che l’unità della bioetica come unità di senso si regge sull’esigenza fondamentale del comunicare, che rende i linguaggi tutti diversi dell’umanità anche tutti reciprocamente traducibili. Prospettive diverse sul limite di questa traducibilità sono compatibili con la condivisione dell’impegno a realizzarla nella più ampia misura possibile e la consapevolezza che a ognuno spetta di inventare una risposta personale e inimitabile (e non per questo solitaria) all’appello del bene.
In Francesco, infine, ho sempre trovato la spinta a realizzare e mantenere quella che si potrebbe definire, giocando un po’ con il vocabolario hegeliano, non la Aufhebung della rappresentazione nel concetto ma la loro circolarità, intendendo la rappresentazione, secondo la definizione offerta nell’Introduzione alla Enciclopedia delle scienze filosofiche, come la sfera dei sentimenti, intuizioni, appetizioni, volizioni che possono essere considerati come metafore di pensieri e concetti. Francesco aveva il dono di una capacità inimitabile di scovare tracce di universale nella scena di un film, in una pagina ai più sconosciuta delle più diverse letterature, in un aneddoto. E questa circolarità di concetto e rappresentazione diventava circolarità di pensiero e vita quotidiana nei momenti in cui la convivialità del primo, che ho richiamato all’inizio, si intrecciava alla convivialità nel suo significato più comune, come mi è capitato di sperimentare nei laboratori sublacensi ai quali ho partecipato per diversi anni o in una cena di Capodanno a casa sua. In questo modo, la passione per la scoperta del ‘tu’ diventava il vettore di continuità fra il tempo, il rigore e i risultati dello studio e il tempo, i sentimenti belli e le esperienze della vita. La «vita» è l’ultima delle «parole» di bioetica incluse da Francesco in un volume del 2004. Scrivendo un articolo subito dopo la sua morte, la mia attenzione era caduta su questa pagina. E non riesco a staccarmene. Ha ragione il Mefistofele di Goethe? Sarebbe meglio che nulla nascesse, «perché tutto ciò che nasce merita di essere distrutto»? La morte «interrompe, ma non toglie senso alla vita». Non annienta e non può annientare il senso, che abbiamo costruito e condiviso con altri. Il dono resta. Quello dell’amore di Francesco per la sua famiglia. Quello dell’amicizia che in tanti, per tanti anni, abbiamo ricevuto.

Sergio Belardinelli dice
Grazie caro Stefano.
È bellissimo!
Un abbraccio, Sergio Belardinelli
Dino Cofrancesco dice
Bellissimo! Non ho parole..