È terribile dover discutere di questioni ultime, di questioni, letteralmente, di vita e di morte, con argomenti che inevitabilmente feriranno coloro che non li condividono. D’altra parte, però, se non vogliamo ridurre il nostro pluralismo a un semplice gioco di società, è evidente che non si può impedire a nessuno di difendere le proprie convinzioni più profonde. Il problema è piuttosto quello di evitare che la discussione diventi una sorta di ‘guerra civile condotta con altri mezzi’. Ma come?
Non vorrei apparire troppo frivolo, ma in una società dove non ci sono più orientamenti culturali condivisi e assai scarsa è la fiducia nel dibattito razionale, credo che ormai non resti che appellarci allo stile, diciamo pure a un tipo di conversazione civile, i cui partecipanti siano fermi nelle proprie convinzioni, ma anche attenti alle ragioni degli altri, magari nella consapevolezza di quanto possa essere tragica la condizione umana. Pretesa eccessiva, si dirà. Troppo ragionevole. Eppure proprio quando certe questioni surriscaldano gli animi potrebbe essere di una qualche utilità il pensiero che sia «la pietà che l’uomo all’uom più deve». Altro che vittoria di questa o quell’altra fazione!
Fatta questa premessa, vengo alla sentenza della Consulta sulla vicenda Cappato – Dj Fabo. Vi si dice che non è punibile chi «agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli». È dunque evidente che per la Consulta il gesto di Cappato non si configura in alcun modo come un crimine. Ma, se è per questo, pur non essendo un giurista e pur non condividendo il significato che Cappato ha attribuito e attribuisce al suo gesto, neanche io ho mai pensato che lo fosse. Per me il punto è un altro ed è quasi inestricabile. Da un lato, considero infatti ormai inevitabile che il Parlamento vari una legge sul fine vita che consenta a coloro che si trovano nelle condizioni in cui si trovava Dj Fabo di essere aiutati a morire; dall’altro, però, temo che qualsiasi legge in materia possa finire per alimentare un clima culturale che, anziché insistere sulla necessità di accudire e confortare le persone più fragili e indifese, offra loro semplicemente l’opportunità di togliersi di mezzo.
Vedremo quali saranno le motivazioni, ma a rigor di termini non mi sembra che la sentenza della Consulta legittimi l’eutanasia, ossia il diritto di ciascuno a morire come e quando gli pare, garantito dal Sistema Sanitario Nazionale. La sentenza pone anzi dei paletti che sembrano abbastanza restrittivi. Ad esempio, quando ci si riferisce al paziente «tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche», è evidente che saranno importanti la certificazione e il ruolo del medico, non soltanto la volontà del paziente; quando si dice che il paziente deve essere «pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli», è evidente che ci si riferisce alla volontà attuale del paziente, non a quella di qualcuno che parli in sua vece. Di conseguenza, anche in considerazione del fatto che siamo di fronte a una materia sulla quale è assai arduo legiferare, ci sarebbe da augurarsi che in Parlamento e nell’opinione pubblica il dibattito non venga radicalizzato né in un senso né nell’altro. Temo invece che ne sentiremo di tutti i colori, senza alcuna pietà.
Francesco D’Agostino dice
Considerando che il principio dell’autodeterminazione è considerato di rango costituzionale, la sentenza della Corte è stata la migliore possibile (nel contesto italiano). I “paletti” che ha posto sono tali, che viene da chiedersi se il Parlamento riuscirà davvero a rispettarli. Il riferimento alla valutazione di un Comitato etico è prezioso. L’esclusione dei familiari è a sua volta meritevole di riflessione.
Michele Magno dice
Articolo saggio e di raro equilibrio, che condivido pienamente.