Alla fine degli anni Settanta, Hans Jonas propose, in uno dei suoi libri più importanti, Das Prinzip Verantwortung (Il principio responsabilità), una vera e propria «euristica della paura» come grimaldello per fronteggiare il potere sempre più minaccioso della tecnica sulla natura e sugli uomini. La sua tesi di fondo era che, dovendo scegliere tra le prospettive nefaste di un determinato sviluppo e quelle favorevoli, fosse molto più ragionevole affidarci alle nostre paure che ai nostri desideri. Una tesi indubbiamente molto seria, che però con gli anni mi sembra che abbia subito una pericolosa radicalizzazione.
E oggi si tende ad assumere i ‘pericoli possibili’ connessi alle nostre scelte come se fossero ‘pericoli reali’, facendo poi leva sulla paura per impedire qualsiasi scelta della quale non si possa garantire l’assoluta sicurezza. Chi ha paura pretende di aver ragione per il semplice fatto di aver paura.
Succede così che l’ottimismo ingiustificato di ieri, la pretesa di realizzare grazie alla scienza, alla tecnica o alla politica il paradiso su questa terra, sembra aver lasciato il posto a un pessimismo ugualmente ingiustificato, secondo il quale la terra si appresterebbe a diventare una landa desolata, minacciata ora dal capitalismo tecnocratico, ora dallo straniero, ora da coloro che detengono le leve del potere economico-finanziario mondiale. E questo senza che ci si renda conto del vero pericolo che stiamo correndo: quello di trasformare il mondo in una grande soffitta abitata dall’uomo nero; di rimanere cioè come paralizzati dalla paura e dall’incertezza, sempre più incapaci di reagire in modo razionale sia di fronte ai pericoli ‘reali’ che a quelli ‘possibili’ e quindi di lasciare che le cose si facciano da sole.
So di compiere un’affermazione per molti versi provocatoria, ma nel contesto socio-culturale che ho appena tratteggiato, contrassegnato da una sorta di paura metafisica, il primo dovere che abbiamo è quello di richiamare alcune banalità che possono non piacerci, ma che sono fondamentali. La prima delle quali è la seguente: la vita è rischiosa di per sé; il mito di una assoluta sicurezza, di una sicurezza che non esiste e che non può esistere, rappresenta il miglior brodo di coltura della paura metafisica che sta paralizzando tutti, senza impedire peraltro che chi ha potere per farlo continui a fare il suo proprio comodo. Meglio attrezzarci dunque a convivere con un’incertezza condivisa e magari ‘controllabile’, che tener dietro a sicurezze impossibili.
Per una serie di motivi, che in questa sede posso appena accennare, si tratta di un compito molto difficile. Le minacce ambientali che incombono sull’umanità sono anche la riprova del fallimento di certo spirito moderno, tendente a guardare la natura (e la natura umana) come semplice materiale da dominare e sfruttare; esse ci richiamano l’urgenza di procedere con maggiore cautela, diciamo pure, con maggiore ‘precauzione’. Ma sarebbe deleterio considerare, come spesso purtroppo si fa, il cosiddetto principio di precauzione, come una sorta di Kampfbegriff, un vessillo di battaglia, da agitare aprioristicamente contro qualsiasi rischio.
Il nostro potere crescente sulla natura e sulle contingenze della vita sociale e individuale ci ha prima illusi di poter tenere tutto sotto controllo e poi delusi di fronte a un’incertezza e a una finitezza persistenti, che però, a differenza di ieri, non riusciamo più ad accettare. Mai come oggi abbiamo parlato tanto di libertà e di rischi, e mai come oggi, a tutti i livelli, abbiamo tanto desiderato la sicurezza.
Questo bisogno di sicurezza ha di fatto scardinato uno dei principii fondamentali della nostra modernità: ‘in dubio pro libertate’. Per non dire di quella sorta di doppia morale che sembra ormai sempre più diffusa nella nostra società: da una parte, la morale di coloro che prendono le decisioni e, dall’altra, quella di coloro che vengono semplicemente coinvolti dalle decisioni altrui. I primi tolleranti al rischio, i secondi assolutamente intolleranti.
Questa doppia morale la vediamo all’opera tutte le volte che si tratta di prendere decisioni difficili, specialmente in materia ambientale. In genere chi prende la decisione lo fa sulla base di un calcolo dei rischi, ma chi vive nelle zone in cui si pensa che l’ambiente possa esserne danneggiato, considera tale decisione un sopruso di cui semplicemente non vuol sentire parlare, generando conflitti sociali per molti versi insolubili. Come uscirne?
Purtroppo non esistono ricette in proposito. Possiamo solo confidare nella phronesis. Le prospettive di una catastrofe in genere introducono nelle discussioni pubbliche elementi che minacciano seriamente l’equilibro democratico. Come suggerisce Niklas Luhmann, quando si discute di certe cose, potrebbe essere utile «mettere al bando la parola sicurezza», auspicando che le discussioni abbiano luogo «sulla base di un’incertezza condivisa». Tra le strategie di dialogo dovrebbe esserci quindi anche quella di «trasformare in incertezza, ossia in rischio, le presunte certezze dell’altra parte riguardo, ad esempio, all’esistenza di alternative o alla copertura dei costi».
Personalmente apprezzo questo genere di raccomandazioni, ma credo che non siano sufficienti rispetto alla posta che è in gioco. Almeno dal mio punto di vista, il principio della libertà (e quindi dell’incertezza) è senz’altro uno dei valori più preziosi dell’uomo; ‘in dubio pro libertate’, appunto. Tale principio, però, presupponeva un cosmo che non poteva essere distrutto dall’agire umano, mentre oggi sappiamo che questo presupposto non vale più. E sebbene l’autoconservazione non sia per gli uomini il principale valore (guai se lo diventasse), è pur vero che la tutela delle condizioni che rendono possibile la ‘vita buona’ implica ormai anche il dovere che si tuteli anzitutto la vita. Primum vivere, dicevano i latini.
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