Era il 12 dicembre 2015 quando i media di tutto il mondo diedero grande risalto alla notizia del raggiunto accordo a Parigi, nell’ambito della Conferenza mondiale sul clima delle Nazioni Unite (COP 21), accordo effettivamente tradotto in un articolato documento finale (da più parti definito «storico») sottoscritto da 195 paesi e contenente una serie di impegni da parte di questi ultimi ad adottare misure indirizzate a limitare il riscaldamento globale.
Le foto celebrative dell’avvenuto accordo, così come quelle dell’intero percorso della Conferenza, vedono quali protagonisti principali, gli uni accanto agli altri, non solo il Segretario Generale e alti rappresentanti dell’ONU, ma anche i più importanti leader della politica mondiale, primo fra tutti l’allora Presidente degli Stati Uniti Obama.
Ironia della sorte: a nemmeno un anno di distanza dalla data di cui sopra e in perfetta corrispondenza con l’effettiva entrata in vigore degli accordi di Parigi il 4 novembre 2016, la vittoria di Trump nelle elezioni alla Presidenza americana si profilò come una forte battuta d’arresto degli accordi parigini da parte di uno dei più importanti paesi firmatari, dato che nel corso della campagna elettorale Trump aveva più volte manifestato la precisa volontà, se fosse stato eletto, di far ritirare gli Stati Uniti dagli accordi sottoscritti dal suo predecessore Obama. E l’annuncio del ritiro degli USA dagli accordi di Parigi seguì immediatamente dopo l’insediamento di Trump alla Casa Bianca anche se, secondo i termini previsti nell’accordo, i paesi segnatari dovevano aspettare almeno quattro anni dalla data dell’entrata in vigore del patto prima di poterlo concretamente disdire.
L’ufficialità dell’effettivo abbandono da parte di Washington cade da ultimo ancora in perfetta corrispondenza con le elezioni americane alla Presidenza e anzi coincide con l’infuocato clima post-elettorale dei giorni successivi in attesa dei risultati finali del duello Biden/Trump: la data del 5 novembre 2020 segna infatti il primo giorno a partire dal quale gli Stati Uniti non sono più parte degli accordi di Parigi.
Il rientro immediato in questi ultimi da parte degli USA è uno degli obiettivi del programma di Biden; il che potrà effettivamente avvenire nei primi mesi del 2021, quando il Presidente Biden sarà in grado di notificare ufficialmente alle Nazioni Unite la richiesta di riammettere il suo paese negli accordi in oggetto. L’auspicabile rinnovato impegno degli Stati Uniti sugli accordi stabiliti a Parigi rappresenterà un passo importante nella prospettiva del raggiungimento dei traguardi ivi delineati e nella eventuale nuova e ancora più impegnativa rivisitazione degli stessi da parte di tutti i paesi aderenti alla luce delle più urgenti questioni ambientali del presente.
Quel che è certo però è che lo scenario mondiale all’interno del quale ciò potrà avvenire non è certo più facile rispetto a quello che caratterizzava, alla fine del 2015, l’atto di nascita degli accordi parigini. Le successive Conferenze delle Parti delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, succedutesi anno dopo anno a cavallo dei mesi di novembre/dicembre (da COP 22 del 2016 a Marrakech fino a COP 25 di Madrid nel 2019), per fare il punto sui vari specifici aspetti degli accordi di Parigi e lo stato effettivo dell’orientamento dei vari paesi a tradurli in atto, non hanno segnato certo una parabola progressiva.
Da ultimo, gli esiti della Conferenza di Madrid (non a caso la più lunga fra tutte le conferenze precedenti a causa delle difficoltà di trovare compromessi accettabili nel tortuoso cammino fra veti incrociati contrapposti) sono stati unanimemente interpretati come assai deludenti, anzi il documento conclusivo è stato da più parti definito come un vero e proprio nulla di fatto.
In particolare lo scontro sull’articolo 6 degli accordi di Parigi e sul commercio delle quote di carbonio ha costituito un ostacolo insormontabile e punto di stallo fra costellazioni diverse di paesi e interessi presenti nell’ambito della Conferenza. Valga per tutti l’amaro commento finale del Segretario Generale ONU António Guterres secondo il quale a Madrid la comunità internazionale ha perso una opportunità per manifestare maggiore ambizione nell’affrontare la crisi dei cambiamenti climatici.
Fondamentalmente la decisione di posticipare all’anno successivo ogni decisione sulle problematicità dell’articolo 6 e sulla precisa definizione degli impegni/obblighi relativi per tagliare i gas serra, induceva molti commentatori a sottolineare come il 2020 sarebbe stato l’anno cruciale per salvare gli stessi accordi di Parigi. Poi, a partire dai primi mesi del nuovo anno: la pandemia globale Covid 19 e numerosissime voci della scienza, della politica, della opinione pubblica che, a vari livelli, si levano a sottolinearne le relazioni dirette con la distruzione dell’ambiente su scala planetaria.
Eppure, in tale contesto, che sembrerebbe particolarmente idoneo a raccogliere le sfide della emergenza climatica ad ampio spettro e a discuterne con urgenza, ecco invece dato, fin dall’inizio della pandemia, nei primi mesi del nuovo anno, il solerte annuncio dell’annullamento di COP 26, prevista a Glasgow a fine novembre 2020 e del suo rinvio di un anno.
Mi chiedo se, in un’epoca in cui tanto si è disposti a celebrare i fasti delle nuove piattaforme informatiche, non ci sarebbe stato il tempo per organizzare almeno un summit, anche in formato ridotto, per via telematica fra i rappresentanti dell’ONU, dei vari paesi e delle organizzazioni della società civile che vi dovevano partecipare.
In sé il repentino annullamento in questione suona a mio avviso come il poco edificante messaggio che segue: «Il clima e l’ambiente possono attendere!». Non si tratta di un bel viatico per il quinto compleanno degli accordi di Parigi.
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