Nel bel mezzo della crisi politica in cui siamo precipitati (e che la maggioranza dei cittadini ritiene inspiegabile sotto il profilo della semplice ragionevolezza, nella temperie della pandemia e dei suoi drammatici contraccolpi economico-sociali) capita spesso di sentir risuonare l’anatema del trasformismo, quale atavico male italiano. Illustri commentatori politici e più o meno noti esponenti dei partiti, fanno a gara nel mettere alla berlina questo vizio, indicato quale vera e propria patologia del sistema politico italiano.
Qualche firma importante si preoccupa anche di spiegare, dalla tribuna dei vari media, che l’atto di nascita del trasformismo è da rintracciarsi fin dai primi decenni di vita dell’Italia liberale e specificamente nella politica inaugurata dal primo Presidente del Consiglio/leader della Sinistra storica, Agostino Depretis, a cavallo degli anni ottanta del XIX secolo. Da quel preciso momento prende dunque l’avvio quel duraturo, vero e proprio filo rosso della politica italiana, male endemico della stessa, sempre destinato a riemergere con forza, nelle sue nefaste conseguenze, particolarmente nei momenti di più grave crisi, dall’Italia liberale all’Italia repubblicana.
Ai cittadini dell’era di internet, curiosi di ulteriori approfondimenti personali, uno strumento di immediata e larga diffusione quale Wikipedia, alla voce «trasformismo», ne mette in effetti immediatamente in luce la persistente connotazione negativa: «Nella storia della politica italiana – vi si legge – il trasformismo indica una pratica politica che consiste nella sostituzione del confronto aperto tra la maggioranza che governa e l’opposizione che controlla con la cooptazione nella maggioranza di elementi dell’opposizione per esigenze tipicamente utilitaristiche».
Le considerazioni appena riportate seguono tuttavia una citazione d’apertura, tratta da un discorso tenuto da Depretis a Stradella; di contro, a coloro che lo accusano di essere venuto meno ai princìpi programmatici della Sinistra, avendo egli stabilito accordi con lo statista/principe e leader riconosciuto della Destra moderata, Marco Minghetti, Depretis motiva come segue: «Se qualcheduno vuole entrare nelle nostre file, se vuole accettare il mio modesto programma, se vuole trasformarsi e diventare progressista, come posso io respingerlo?» (ottobre 1882).
Cosa intende sottolineare Depretis? Una sorta di conversione della Destra ai valori progressisti della Sinistra? Non si tratta certo di una affermazione così semplicistica. Il ragionamento più complessivo e assai più organico che egli condurrà nel corso dei suoi più importanti interventi parlamentari ed extraparlamentari, per difendersi dagli strali delle accuse di trasformismo, si svolge intorno al binomio trasformazione-progresso che viene portato alla ribalta. Si tratta di ripensare insomma cosa significhi eadem sentire de republica alla luce di importanti riforme (a carattere economico, amministrativo, finanziario, sociale) di cui l’Italia ha bisogno urgente alla luce degli accelerati processi di trasformazione in atto e che non possono trovare soluzione chiamando semplicemente in causa le contrapposizioni ideali del passato tra Sinistra e Destra, maturate negli anni eroici dell’unificazione nazionale. La prospettiva delle riforme deve ora gettare un ponte fra schieramenti politici diversi.
Dal canto suo Minghetti, l’altro grande artefice della svolta trasformistica, non si stanca di rivendicare alla sua parte politica, la Destra, la capacità e possibilità effettiva di condurre in porto anche quelle misure di legislazione sociale che, sulla scorta dell’esempio di altri paesi europei (Inghilterra e Germania in testa), egli ritiene assolutamente necessarie per la salvezza stessa dello Stato liberale, contro a ogni estremismo rivoluzionario o reazionario in campo; dunque anche la Destra è e vuol essere garante di effettivo progresso, senza traumatiche soluzioni di continuità.
Nel suo celebre discorso alla Camera Sull’indirizzo generale politico del governo (12 maggio 1883), da più parti considerato un vero e proprio manifesto del trasformismo, Minghetti è capace di volare alto, anche nella sua veste di pensatore politico di caratura europea quale egli è, in grado di presentare il trasformismo come una sorta di necessità alla luce dei princìpi dell’evoluzionismo scientifico.
«Cosa intendete voi per trasformismo? – tuona Minghetti dagli scranni parlamentari – Intendete voi che gli uomini e i partiti non rimangono sempre immobili, ma modificano le idee e i sentimenti loro secondo le circostanze, secondo le esigenze pubbliche, i tempi ed i luoghi diversi? In questo caso permettetemi che io dica che il trasformismo è la legge generale delle cose viventi: non v’è pianta, non v’è animale, non v’è uomo che sia oggi lo stesso di quello che era ieri. In questo senso il trasformismo, ripeto, è una legge generale, perché ciò che non è suscettivo di trasformazione è morto».
Senza nessuna volontà di aprire un discorso ampio sulle ragioni del trasformismo come «scelta di sistema e non come mera espressione di un costume politico» (Sabbatucci), sarebbe davvero interessante capire come e perché la prospettiva originaria (almeno da parte di alcuni importanti uomini politici) di serie riforme, sostenute da un ampio consenso degli schieramenti parlamentari, si sia via via persa per strada, dato che chi brandisce oggi tale concetto quale arma della battaglia politica lo fa per alzare i toni della deprecazione contro il malcostume e la corruzione di coloro contro i quali l’accusa di trasformismo viene di volta in volta lanciata.
roberto cartocci dice
Ottima cosa richiamare la definizione originale. Questa dinamica intraparlamentare ci è stata utile più volte, quando qualche alleato di una coalizione (debole, come spesso accade) esce dalla maggioranza adducendo – di solito – ragioni identitarie non negoziabili.
Gianfranco Pasquino dice
ben detto. Qualche conoscenza storica e qualche competenza concettuale sono sempre utili. Brava.