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Annessioni, secessioni, ma soprattutto divorzi. In un mondo interconnesso

12 Ottobre 2017 di Emidio Diodato 2 commenti

Ci sono state almeno due ondate di sovranità nel corso del Novecento. All’istituzione delle Nazioni Unite parteciparono 51 stati membri. Oggi sono 193. Il calcolo è in parte fuorviante. L’Italia cobelligerante fu ad esempio esclusa. Ma la decolonizzazione ha quasi triplicato il numero degli stati membri. E poi con il crollo del socialismo sovietico, verso la fine del secolo, i produttori di atlanti geografici fecero buoni affari, vendendo gli aggiornamenti. Era in corso una nuova ondata. Certo, non si spiega tutto allo stesso modo. Il ‘divorzio di velluto’ tra Praga e Bratislava è stato consumato nella sala da pranzo di una villa nei pressi di Brno, poi divenuta patrimonio dell’umanità. La vicenda attende di essere chiarita. Ma innegabilmente era in corso un’ondata di sovranità generata dal crollo sovietico. Che si è spenta al volgere del millennio. Da allora solo Timor Est, Montenegro e Sud Sudan si sono aggiunti alla lista dei paesi delle Nazioni Unite. A parte la Svizzera, che nel 2002 abbandonò il suo centenario isolamento politico. Di un soffio: 55% della popolazione a favore, 45% contrario. 12 cantoni a favore contro 11.

Ma veniamo ad oggi. Negli ultimi anni la geografia politica è entrata in una fase di instabilità. Nel 2014, a marzo, con un referendum la Crimea è stata annessa alla Russia. Poi a giugno è stato proclamato un Califfato tra Siria ed Iraq. Frontiere che cambiano. Circostanze molto diverse. Nel primo caso potremmo parlare di un’abile e ottocentesca acquisizione territoriale. Tuttavia l’autodeterminazione attraverso il referendum può anche essere considerata come una novecentesca aspirazione all’indipendenza. Ovviamente da parte di un popolo che ha cercato protezione. Il secondo caso è ancor più complicato: effetto del fallimento dell’esportazione della democrazia? Islam globale/digitale? Tanti ingredienti hanno contribuito all’attuale minestrone. Ciò che resta, però, è l’impressione o il sapore di un’intrinseca debolezza delle attuali formazioni statali nell’ampia regione mediorientale. Mancato consolidamento? Solo le monarchie e gli emirati appaio in grado di sopravvivere senza amputazioni o rivolgimenti. Pochi giorni fa, il 25 settembre 2017, i curdi iracheni hanno votato in un referendum per l’indipendenza o, anzi, per la secessione dall’Iraq. Non sarà che, alla fine, anche il (forse) più noto ‘popolo invisibile’ della storia troverà il suo spazio di sovranità? Per poi rivendicare l’annessione per via popolare di altri lembi di terra?

Inevitabile è un parallelo con l’iniziativa del governo catalano (referendum del 1° ottobre e quel che seguirà). Si può pur saltare sulla seggiola. È infatti evidente che si tratta di un caso completamente diverso rispetto a quello curdo. Ma ancora una volta: sono frontiere che entrano in tensione. Crescete e moltiplicatevi. Comunque è nella differenza tra i due casi che si coglie il dato più significativo. Nel derby iberico tra custodi della costituzione e difensori della libera espressione popolare, infatti, è sfuggito ai più un fatto evidente. La mobilitazione identitaria in Europa torna ad essere territoriale. Giunge al capolinea il presupposto funzionalista dell’integrazione, ossia che l’esistenza di una mancata corrispondenza tra la dimensione territoriale dei problemi umani, da una parte, e dell’autorità politica chiamata a risolverli, dall’altra, genera pressioni dirette alla riforma giuridica sovranazionale. Ciò non significa rinunciare all’Europa, ma starci diversamente. Magari dopo un divorzio.

Non penso siamo di fronte alla soglia di una nuova ondata di sovranità. Non ne colgo i segnali. A parer mio il mondo è interconnesso ed è questo che genera forti pressioni sui confini territoriali. Il riproporsi di modalità di azione e di storie del passato fanno da contorno. La contraddizione è tra interconnessione (megalopoli, aeroporti, autostrade, ferrovie, oleodotti, ma soprattutto cavi internet e altri strumenti dell’emergente civiltà digitale) e separazione (secessioni, divorzi, ma anche annessioni per via popolare). La proiezione verso il Mar Nero offerta dalla Crimea e quella internazionale di Erbil non fanno eccezione. Benché inserite in contesti poco istituzionalizzati e quindi più violenti. Nel caso dei divorzi la contraddizione può generare esiti diversi. Si possono infatti trovare formule che evitino lo scontro. Ma il punto è capire come separarsi consensualmente. Come si giunge ad un ‘divorzio di velluto’.

Mi pare che tale difficoltà sia emersa in tutta la sua evidenza anche nelle parole pronunciate da Theresa May nel suo primo Brexit speech, quello di Lancaster House del 17 gennaio 2017: «Hanno votato per lasciare l’Unione europea e abbracciare il mondo». Il soggetto era il popolo britannico, al quale ella intendeva restituire «Un paese che si affaccia al mondo per costruire relazioni con vecchi amici e nuovi alleati» (Global Britain). Anche qui: non si vuole rinunciare alla globalizzazione, ma viverla diversamente. Si tratta di un caso particolare, certo. Così come particolare è ogni questione relativa all’Unione europea. Comunque il divorzio è un’operazione difficile e pericolosa a tutti i livelli. È così sempre, in ogni tentativo di riscrivere la geografia politica o la geopolitica. Lo testimonia il disperato appello alla ‘creatività’ per portare avanti i negoziati sul divorzio dall’Unione europea, formulato nell’ultimo Brexit speech tenuto dalla May il 22 settembre a Firenze: «Fu qui, più che altrove, che il Rinascimento ebbe inizio – un periodo di storia che ha ispirato secoli di creatività e di pensiero critico in tutto il nostro continente e che ha definito in molti modi ciò che significava essere europeo». Good luck! Ad ogni buon conto, per il futuro delle relazioni internazionali propongo di riflettere seriamente sul motto dell’architetto che progettò Villa Tugendhat vicino Brno: «less is more».

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Commenti

  1. Gianfranco Pasquino dice

    13 Ottobre 2017 alle 19:21

    e il Kossovo?

    effetto sovranista sulla “secessione” catalana o banale egoismo dei ricchi che, poiché anche stupidi, non vogliono condividere con i poveri. Non sanno che quei poveri sono contributori netti delle loro ricchezze.

    Rispondi
    • Emidio Diodato dice

      24 Novembre 2017 alle 17:45

      Mi scuso, leggo terribilmente tardi questo commento. In effetti il Kosovo è stato riconosciuto dalla grande maggioranza dei paesi membri delle Nazioni Unite e sarà presto riconosciuto dall’Onu, anche se ignoro cosa ne sarà del paese dopo Unmik.

      Rispondi

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