La questione del multiculturalismo sembra oggi sopravanzata da quella dell’immigrazione; il dibattito smorzato, le posizioni polarizzate. Ma l’immigrato, anche se isolato, senza appartenenza organica al suo gruppo etnico, religioso, culturale è comunque la frazione di una presenza collettiva identitaria, che sollecita un’idea di gestione del problema multiculturale.
È da questo punto di vista che la cosa deve preoccupare, oggi più di ieri; l’attenzione sembra catturata dalle condizioni economiche, dalle circostanze politiche, dalle opportunità sociali, mentre poca ne è riservata alla dimensione culturale che è in gioco. Nonostante la terminologia del multi-culturalismo o della inter-culturalità, la questione multiculturale è considerata cosa sociale o di ordine pubblico o di Pil, più che di cultura; e caso mai quello che fa problema è la cultura degli altri, che si vorrebbe rapidamente integrata e la cui diversità identitaria ci si aspetta che venga presto ‘urbanizzata’.
Questo modo di considerare la cosa – che mi sembra abbastanza diffuso − denuncia uno stato di preoccupante estraneazione. Meglio di autoestraneazione, perché la prima problematica culturale che dovrebbe entrare in gioco non è quella dei sopravvenuti (oltre che sopravvissuti), ma la nostra; quella circa cui veniamo interpellati dagli eventi, che ci interrogano sulla nostra identità culturale, sulla nostra capacità non solo di prendere (o di non saper prendere) provvedimenti, ma anche di produrre forme simboliche in grado di dire chi noi siamo, quali criteri di interpretazione usiamo nei confronti di noi stessi e degli altri, quale idea di potere abbiamo per governarci e per governare altri. Solo a queste condizioni si è in grado di relazionarci con altre identità culturali, non come entità innanzitutto da gestire e neppure comunque da accogliere, ma da interrogare e da provocare a loro volta circa l’identità simbolica, la volontà interpretativa, l’intenzione di potere che le qualifica; perché è su questi piani che avviene l’incontro o lo scontro delle culture
Per questo è decisivo non errare troppo circa la natura della cultura, come ha osservato saggiamente S. Benhabib. Frequenti sono ancora le sue interpretazioni come grande o piccolo universo concluso, oggetto privilegiato della mentalità relativista, che promuove in idea l’identità e la libertà e favorisce in realtà l’isolamento e l’incomunicabilità; oppure l’interpretazione della cultura come veicolo più o meno valido di universalismo, da misurare in termini di valori e di diritti umani. In realtà, particolarismo e universalismo sono in gradi diversi componenti di ogni cultura, ma in indisgiungibile unità. Proprio la composizione di universale e particolare è la grande risorsa della cultura, che non può essere proposta e considerata se non nella sua complessa e complessiva integralità, che è ragione della sua esistenza, fondamento della sua storia, motivo della sua capacità/incapacità di relazione, presupposto dei suoi possibili conflitti.
Per questo le relazioni attive tra interi culturali sono quelle che si pensano come relazioni tra universali concreti, in cui l’universale accomunante si dà solo attraverso le particolarità differenzianti, che a loro volta rinviano ad esso; come testimonia il paradosso artistico, secondo cui l’opera d’arte è universalmente significativa solo ed esclusivamente nella sua singolarissima particolarità. Per questo, sia il recingere sé o altri nel proprio particolare sia il risolverli in un formalismo universalistico costituiscono forme di immunizzazione delle/dalle culture, che ne impedisce la presenza e ne blocca il confronto. Di conseguenza, la direttiva più ragionevole di una politica interculturale è di sostenere processi di passaggio dal fatto della coesistenza multiculturale al costruito della convivenza, intesa come serie di spazi mobili di interazione voluta, di comunanze riconosciute, di differenze accettate, di conflitto regolato. Per questo motivo una convivenza interculturale non è programmabile e l’esito non può essere prestabilito, ma deve sostenere l’impegno e correre il rischio della spontanea dialettica delle tradizioni (A. MacIntyre). È la storia dei processi a evidenziare chi è disponibile alla convivenza e chi no.
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