La guerra in Ucraina ha sollevato una serie di domande a cui il dibattito politologico non può sottrarsi. Come anticipato da Emidio Diodato in un commento su queste pagine, gli studiosi di politica internazionale hanno il dovere di intervenire nel discorso pubblico e gli strumenti analitici necessari per uscire dalle secche di una polemica (ideologica o interessata che sia) ormai nauseante. Il tentativo di questo breve contributo è offrire alcuni spunti di riflessione rispetto all’impegno dichiarato dal governo italiano – insieme ad altri paesi europei – di incrementare le spese della difesa.
Prima di tutto è necessario esplicitare tre premesse. La prima è che, se l’impegno verrà mantenuto, si tratterà di un punto di svolta rispetto a un’avversione per le spese militari che in Europa si registra trasversalmente (con pochissime eccezioni) da decenni. La seconda premessa è che, come pare evidente dal dibattito attuale, il tema della difesa in Italia viene affrontato attraverso le spesse lenti dell’ideologia, con posizioni dogmatiche e una limitatissima disposizione al compromesso. La terza premessa è che i contratti per l’acquisizione di armamenti tendono a spalmare i costi su un arco temporale che può essere di decenni, per cui la variazione di spesa anno-su-anno può essere significativa. Ne consegue che, necessariamente, qualsiasi discorso sensato sul tema deve prevedere una pianificazione di medio-lungo periodo.
Ciò detto, occorre dare sostanza all’oggetto del contendere fornendo un minimo di inquadramento storico e qualche dato empirico. Alla base della dichiarazione di portare la spesa militare al 2% del PIL sta il cosiddetto NATO Defence Investment Pledge, ovvero l’impegno preso al vertice del Galles nel 2014 ad incrementare il bilancio della difesa fino al 2% del PIL entro il 2024 (non meno importante, occorre aggiungere, un secondo impegno prevedeva l’allocazione di almeno il 20% di queste spese per l’acquisizione di nuove armi). In sé, quindi, la posizione recentemente espressa dal Presidente del Consiglio Mario Draghi non dovrebbe costituire un motivo di stupore: andrebbe anzi letta come il tentativo di prestar fede a un impegno sottoscritto con gli alleati (in primis gli Stati Uniti) ormai otto anni fa.
Tuttavia, il dato grezzo relativo al bilancio della difesa negli ultimi anni – nonostante un significativo aumento a partire dal 2020 – dovrebbe sollevare almeno qualche nota di perplessità: secondo i dati dell’Agenzia Europea di Difesa, il rapporto tra spesa militare e PIL si è attestato attorno all’1,2% fino al 2019; è salito all’1,4 dal 2020 (più per effetto della contrazione dell’economia dovuta al COVID che per l’incremento della spesa) e si è attestato attorno all’1,35% nel 2021. In termini assoluti, mantenere l’impegno del 2% comporterebbe passare dai 22,4 miliardi attuali (dati Military Balance 2022) a circa 38. Insomma, anche con un orizzonte di sei anni, come è stato proposto dal ministro Guerini, si tratta di una variazione poco realistica.
Il dibattito pubblico, insomma, non dovrebbe incentrarsi sul come e quando raggiungere il traguardo del 2%, quanto sugli obiettivi e gli effetti di un eventuale incremento della spesa militare. Questo impone altri due quesiti, tra loro interconnessi, ben più urgenti. Il primo concerne l’allocazione delle risorse: come suddividere tra le varie voci di bilancio i fondi aggiuntivi? Le capacità (non solo armi, ma anche infrastrutture per le comunicazioni e la logistica) sono sicuramente una priorità, ma non meno importanti sono le spese per il personale (reclutamento e addestramento) e la manutenzione dei mezzi esistenti.
Il secondo concerne gli ambiti di utilizzo che si prevedono per le Forze Armate italiane: questo è forse il nodo centrale, poiché impone una riflessione (e forse una revisione) strategica approfondita. Da questo punto di vista, il Ministero della Difesa ha compiuto uno sforzo lodevole con la pubblicazione dell’ultimo Libro Bianco, nel 2015, e il Documento Programmatico Pluriennale del 2021. La guerra in Ucraina ha però minato alcuni assunti di questi documenti strategici – in primo luogo riportando al centro dell’attenzione i conflitti ad alta intensità.
In conclusione, come ricordava Angelo Panebianco ormai 25 anni fa nel libro Guerrieri democratici, la scelta tra welfare e warfare rappresenta per tutte le democrazie una decisione necessaria e talvolta lacerante. In Italia, salvo rare eccezioni (si pensi al caso dell’F-35) il discorso relativo alle spese militari è rimasto sistematicamente ai margini del dibattito pubblico. L’attenzione di cui gode in questo momento il tema delle spese per la difesa costituisce quindi un’occasione per interrompere questa prassi. E contribuire, in ultima istanza, a un coinvolgimento più attivo e maturo dell’opinione pubblica nel processo decisionale.