La memoria del capitombolo nel 2008 di Lehman Brothers, seconda più grande banca d’investimento USA, è ancora troppo vivida così da far pensare a molti che la caduta nella polvere di Silicon Valley Bank (SVB) potrebbe aprire uno scenario analogo quindici anni dopo. [Per saperne di più…]
La vittima più illustre del Covid-19
Il coronavirus ha sconvolto il mondo provocando milioni di morti e, purtroppo, il computo salirà ancora molto fino a quando il vaccino non sarà disponibile su larga scala. Quasi tutte le vittime sono state e resteranno anonime. Ma, a mio avviso, una vittima particolarmente illustre del Covid-19 sarà il PIL (Prodotto interno lordo).
Infatti, sebbene tardi esegeti della contabilità nazionale si arrabattino già per dirci dopo quanti anni torneremo ai livelli di PIL pre-Covid, un calcolo del genere ha dell’assurdo per un motivo molto semplice. Il crollo epocale del PIL è stato autoimposto. Abbiamo deciso di chiudere le attività economiche per salvare molte vite, affermando, se ve n’era bisogno, che la creazione di ricchezza è vera solo se non mette a repentaglio vite umane. [Per saperne di più…]
E se i sovranisti di Visegrád diventassero paladini della Difesa Comune Europea?
[*L’articolo è stato scritto dall’Autore insieme a Tiziana Di Maio]
- Introduzione
La vulgata è che tutti i governi sovranisti che si stanno affermando in Europa abbiano un denominatore condiviso, quello di mettere in discussione le politiche comuni dell’Unione Europea. L’esempio forse più plastico è come il gruppo di Visegrád ha bloccato sul nascere l’avvio di prassi di redistribuzione verso altri membri UE dei migranti sbarcati nei Paesi del sud Europa. Ma questo non è che un prototipo di come i governi sovranisti cerchino di ritagliarsi un’UE ‘à la carte’, ove ciascun Paese prende ciò che gli è permesso senza realmente condividere un progetto unitario. Quei Paesi, del resto, per lo più non aderiscono neanche alla moneta comune, il principale pilastro dell’unificazione europea degli scorsi decenni. [Per saperne di più…]
Il futuro stretto dell’Europa
Per gli italiani della mia generazione (ho 60 anni) era naturale proiettare al futuro il ruolo dominante dell’Occidente. A guida statunitense sì, ma con una forte componente europea, di un’Europa che si andava unificando e rimaneva saldo partner degli USA. Questo scenario viene oggi messo in discussione. Il futuro dell’Europa si fa stretto, a meno che…
A indurre incertezze sul futuro dell’Europa contribuiscono fattori esterni e interni, talora combinandosi in spirali negative. Tra i fattori esterni si contano il cambiamento nel ruolo mondiale degli Stati Uniti; la politica di potenza della Cina; il crescente interventismo della Russia; la prorompente dinamica demografica in Africa. Nel complesso questi cambiamenti esterni complicano le prospettive dell’Europa. Tra i fattori interni menzionerei il riemergere di fratture tra paesi europei, accompagnate da inquietudini nazionali; l’incompletezza dell’Unione economica europea messa in tensione da vari fattori di crisi; l’inadeguatezza delle politiche sociali nell’UE; l’assenza di una vera Unione politica; la deficienza di una politica estera e di difesa comuni. Nel loro insieme, le fragilità interne indeboliscono la fiducia nell’UE e tra europei. [Per saperne di più…]
Perché l’Unione Europea deve recuperare legittimità
La legittimità di uno stato democratico e di un progetto democratico di unione sovranazionale (come l’Unione Europea) presuppongono che essi rispettino i valori fondanti dei propri popoli. Ebbene, diversamente dalla realtà statunitense (e, in parte, del Regno Unito), dove la gran maggioranza dei cittadini crede che ciascun individuo ha quello che si merita, i popoli dell’Europa – e ciò a prescindere dal credo religioso e/o dalla latitudine e longitudine – ritengono che in generale non è vero che ciascun individuo abbia ciò che si merita e, piuttosto, il reddito e la ricchezza di un individuo dipendano da fattori in larga misura al di fuori del suo controllo (fig. 1). [Per saperne di più…]
L’involuzione sovranista fa male all’Europa (e al mondo)
Il sollievo che ci ha regalato Emmanuel Macron sconfiggendo Marine Le Pen durerà poco. Torneremo subito a confrontarci con questa fase convulsa della storia in cui stanno tramontando i vecchi assetti senza che si intravedano quelli nuovi. Le grandi incertezze con cui fare i conti vanno dal lavoro e la salute, alle crescenti disuguaglianze, ai flussi di migranti, ai problemi dell’ambiente. Sono tutte questioni che non si prestano a soluzioni nazionali, tantomeno per Paesi piccoli.
Però soffiano da più parti venti nazionalisti o, come ora si dice, sovranisti. È naturale che, siccome l’incertezza deriva in specie dalla globalizzazione, rafforzare i confini nazionali paia una via d’uscita. Ma l’idea che «la globalizzazione ha causato i problemi, quindi rimuoverla li risolverà» è un sillogismo errato. Anziché parte della soluzione, ciò rischierebbe di essere parte del problema, aggravandolo. [Per saperne di più…]
Trump alla fine della globalizzazione? Se a rompere le regole è chi le ha dettate
La presidenza Trump non è il primo ma è comunque un grosso ostacolo alla globalizzazione. Per capirne l’entità, conviene fare un passo indietro e acquisire prospettiva.
La globalizzazione nasce nella mente dei governanti americani alla fine degli anni ’60. Nixon si rende conto che gli USA non ce la fanno più a sostenere l’onere del Gold Exchange Standard, che dissangua le riserve auree di Fort Knox, e a sopportare l’agguerrita concorrenza dei prodotti europei. Decide di cambiare le regole del gioco: abbandona la convertibilità del dollaro in oro e sdogana la Cina.
La Cina diverrà il principale coprotagonista della globalizzazione, mentre l’Europa via via marginalizzata finge di unirsi. Dollari disancorati dall’oro inondano il mondo; ne son pieni i forzieri cinesi.
Mentre gli USA si trasformano da grandi creditori al più grande paese debitore della storia, la globalizzazione prorompe finanziata a credito dal resto del mondo. Genera enormi profitti per chi possiede il capitale. Invece, quando non calano, i salari crescono comunque poco. La disuguaglianza negli USA torna ai massimi di inizio ‘900. La classe media soffre e, per non comprimere i livelli di consumo, si indebita pesantemente con la compiacenza di un sistema finanziario che si inventa strumenti complessi.
Scoppia perciò la crisi del 2008. L’economia viene fatta ripartire con la droga monetaria (QE) e fiscale (vertiginosi deficit pubblici) ma si accentua ancora la sofferenza della classe media americana. Cresce la sua rabbia. La miscela è pronta.
Un tycoon proprietario di grandi attività in industrie in declino (immobiliare e media tradizionali), noto per le bravate da macho e non come capitano d’industria, si erge a paladino contro il male, che ovviamente sta al di là dei confini nazionali. Sequestra il partito repubblicano. Propone ricette semplici, poco conta se siano praticabili. Ammalia i rabbiosi. Vince la Casa Bianca.
È verosimile che Trump dei muri che ha proposto ne costruirà pochi, che ammansisca toni e obiettivi (anche se ciò non traspare dai primi atti). Ma già il fatto di aver sdoganato la diffidenza planetaria, in un modo o nell’altro, scatenerà pulsioni tra gli USA e l’estero. La Brexit sarà stato solo un assaggio. [Per saperne di più…]