La contemporaneità sembra voler profilare a tutti i costi un nuovo modello sociale: quello della nuova bigotteria politicamente corretta. Processo che accentuerà i conflitti veri, non quelli recitati dall’opportunista di turno, pronto a salire sul carro del luogo comune senza pagare il biglietto della compromissione personale, per acquisire una visibilità dentro la quale non sarà capace di mettere alcun contenuto di una qualche importanza. Emoticon ed etichette sono tra gli strumenti privilegiati delle nuove sgangherate velleità censorie.
Le etichette, per la verità, sono un segno del pregiudizio da tempi remoti, anche se brandite come una spada nella battaglia che vogliono sintetizzare. Se il politicamente corretto rappresenta un sigillo per le ipocrisie di tutta la storia, la sua esasperazione apre a scenari il cui grottesco può virare repentinamente in tragedia, nelle giuste condizioni.
Battaglie come la presunta non consensualità di Biancaneve o l’inserimento per obbligo di categorie umane classificate disagiate nel casting dei film, come se questo fosse un reale riconoscimento dei loro diritti, sono solo la punta dell’iceberg di un veleno proteiforme e diffuso, indefinito desiderio di rivalsa male indirizzata che sfocia nel nonsenso, capace di trovare nella storia le vie più imprevedibili. Così dichiaratamente prive di valore che il loro destino non può diventare che l’allestimento di un osservatorio privilegiato, dal quale chi si sente a posto con la coscienza per aver assolto al minimo sindacale della raccolta differenziata dei pregiudizi umani osserverà con distacco la vita reale e i suoi drammi, totalmente indifferenti a queste operazioni di puro maquillage social-politico.
Si dice che sono segnali per indirizzare l’umanità verso il giusto cammino. In realtà sono le certificazioni incontrovertibili di una separazione profonda, cui coloro che si considerano eletti concedono ogni tanto qualche apertura di facciata. La segnaletica regola il traffico, non le tensioni.
Qualche giorno fa ho provato una certa irritazione nel constatare la nuova moda dei locali aperti al pubblico, complice l’implacabile semantica web di google. Mentre cercavo una buona trattoria nella Maremma sulfurea delle arcadie ottocentesche, mi sono imbattuto in una di quelle schede, certamente utili, che google elabora per ‘riassumere’ una attività, linkando giudizi, sito, informazioni, menu, fotografie e quant’altro. Tra le varie icone tooltip del tipo tavoli all’aperto, parcheggio privato, accessibilità, specialità vegane e così via, ne ho individuata una nuova, la bandierina arcobaleno provvista della sigla LGBTQ friendly.
Come si fa a non capire che una indicazione di questo tipo, apparentemente rivolta all’abbattimento dei pregiudizi, finisce per favorire una percezione opposta? Una percezione di categorizzazione e separazione che recita più o meno: «sei differente, ma qui ti accetto lo stesso». Magari c’è anche qualcuno che ne è entusiasta: finalmente si riconosce la diversità. Ed è vero: si riconosce la diversità e gli si pianta sopra una bandierina di proprietà, non dissimile dal vessillo nello spleen di Baudelaire, che dichiara un diritto inesistente: quello di definirla, la diversità.
Non vi è diversità che debba giustificarsi come tale. Il diritto è stabilito direttamente e istantaneamente dall’esistenza, non dalla accoglienza, per quanto piena di buoni propositi. Concetto massacrato nella storia sia dai persecutori che dai tolleranti, favorevoli ad ogni sorta di ghetto felice. Siamo tutti una unica categoria, siamo persone. Comunque, dovunque, sempre. Nessuno ha il diritto di aprire le porte o renderle più scorrevoli. Per un motivo estremamente semplice: sono le porte a non dover esistere: sono le porte a dover essere abbattute.
Bandierine ed etichette trasformano il diverso di turno, che lo sia per differenze sessuali, ideologiche, fisiche, di apparenza o di sostanza, in un freak cui si può tributare o meno un friendly, che non costa nulla e fa molto social. Questo è il tema vero. Le etichette, come gli obblighi e le censure pseudoetiche, semplificano indubbiamente il problema per le ipocrisie individuali e di sistema. Ma le battaglie a suon di icone web e dichiarazioni smaccatamente interessate insistono su un universo completamente differente dalla vita vissuta, dal pregiudizio reale e dalla sua cura e prevenzione. Le rendono ancora più complicate perché sepolte da un mare di bandierine colorate che coprono con la loro retorica, figlia di una mentalità social apparentemente impegnata e in realtà egoista ed omissiva, un oceano di sofferenza di cui nessuno, veramente, si vuol far carico.
Roberto chiarini dice
Veramente acuta