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Bilancio scomodo della legislatura

29 Gennaio 2018 di Umberto Curi 1 commento

Se il livello del dibattito politico fosse per lo meno decente, i dati relativi alla legislatura che si è appena conclusa dovrebbero indurre una seria riflessione. Il primo aspetto da sottolineare è quello che riguarda il ricorso alla decretazione d’urgenza, vale a dire ad uno strumento il cui uso è previsto dalla Costituzione «in casi di comprovata urgenza e necessità». Nei cinque anni appena trascorsi, questa risorsa che dovrebbe essere ‘straordinaria’ è stata utilizzata per ben 95 volte, consegnando il record all’esecutivo guidato da Letta, con una media di 2,5 decreti al mese. Non meno abnorme – e cioè, al di fuori della norma – l’affidamento al voto di fiducia come procedura di approvazione di una provvedimento legislativo. Il primato, in questo caso, spetta a Gentiloni, al quale si deve una media di 2,48 voti di fiducia al mese, per un totale di 107 voti di fiducia lungo l’arco dell’intera legislatura. Altrettanto intenso – e non meno irrituale – il varo di decreti legislativi, mediante i quali il governo trasforma in articolato di legge le linee generali di leggi delega approvate dalle Camere. Dalla valutazione di questi dati (e di altri analoghi, qui omessi per ragioni di brevità), si ricava una conclusione che dovrebbe apparire dirompente, e che invece commentatori e politici accolgono come se si trattasse di banalità senza importanza. In grande sintesi: quasi tre quarti della produzione legislativa dell’intero quinquennio è frutto dell’iniziativa dell’esecutivo e non del Parlamento, il quale ha svolto un ruolo puramente sussidiario e marginale, portando a compimento l’iter di provvedimenti per lo più privi di particolare importanza, mentre le questioni di fondo – dalla legge di bilancio fino alla riforma elettorale – sono il risultato dell’iniziativa del governo, declinata in varie forme.

Se non si fosse ottenebrati dai cascami della polemica politica, se ne dovrebbe trarre una prima e fondamentale conclusione. Sul piano dei fatti concreti, della realtà effettiva, di quella che i politologi chiamano la costituzione materiale, il principio della tripartizione e dell’autonomia dei poteri, cardine della Costituzione formale, è completamente saltato, per fare posto ad un assetto istituzionale nel quale il Parlamento è quasi completamente svuotato di poteri e prerogative, in favore di un rafforzamento e di un allargamento sempre più rilevante delle competenze del governo centrale. Il tutto, senza neppure l’ombra di riforme che modifichino alla luce del sole e con procedure trasparenti il ruolo e le funzioni dei principali attori istituzionali. Il primo corollario di questa semplice constatazione non è meno evidente. Coloro che si ergono a difensori ad oltranza della Carta approvata nel 1948 dimenticano un fatto essenziale, e cioè che essa sopravvive ormai solo come documento storico, e non come descrizione effettiva della morfologia dei poteri e delle loro relazioni. Non meno importante un secondo corollario. Vista l’omogeneità di comportamenti di personalità fra loro molto diverse, come Letta, Renzi e Gentiloni, si dovrebbe avere l’onestà di riconoscere che deroghe, abusi, anomalie, sul piano del funzionamento delle istituzioni, non sono conseguenza di una luciferina volontà di manomissione da parte di chi, come Renzi, appunto, aveva promosso l’approvazione di alcune riforme costituzionali, ma sono imposte da alcune realtà di fatto, impossibili da ignorare o sottovalutare. Tanto per capirsi: se perfino il mite e prudentissimo Gentiloni ricorre sistematicamente al voto di fiducia per far approvare provvedimenti legislativi altrimenti impantanati in Parlamento, vuol dire che la macchina istituzionale nel suo insieme funziona ormai a regime mediante il rovesciamento del rapporto fra norma e ed eccezione. La ‘morale’ di questa vicenda dovrebbe essere lampante. Per volontà di tutti e di nessuno in particolare, ormai da tempo la costituzione materiale si è discostata dalla Costituzione formale con una divaricazione insanabile. Di qui l’alternativa: o si lascia la situazione quale è (come hanno sentenziato coloro che hanno votato ‘no’ al referendum del 4 dicembre), di fatto legittimando un regime di deroghe e abusi del tutto extra legem, oppure si pone mano a riforme istituzionali che interiorizzino alcuni dati diventati inoppugnabili, e ridisegnino la seconda parte della Costituzione in maniera tale da ricondurre sotto il controllo della legge i processi materiali in atto nel sistema istituzionale del paese.

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Commenti

  1. Enrico morando dice

    13 Febbraio 2018 at 11:10

    Finché il governo non avrà poteri di intervento sull’agenda parlamentare- come accade in tutte le democrazie a forma di governo parlamentare- il cosiddetto abuso di decreti e voti di fiducia non avrà fine. Il caso delle leggi delega è diverso e non assimilabile. La soluzione? Era scritta in discreto italiano nella riforma bocciata dal referendum: quando il governo dichiara una legge essenziale per l’attuazione del suo programma, il parlamento discute ed emenda con tempi certi e prefissati. Allo scadere degli stessi, se non ha definitivamente licenziato la nuova legge, il governo ha il diritto di chiedere ed ottenere il voto sul testo originario, prendere o lasciare.

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