La prima reazione collettiva di fronte all’emergenza è stata all’insegna di un sorprendente senso di appartenenza e di solidarietà. Si è avvertito l’impegno della società, si è percepita la responsabilità dello Stato, soprattutto si è sentita pulsare la comunità nazionale a cui d’istinto si attribuisce il valore di un’appartenenza motivante.
Non è poco; come se l’evidenza dell’essere-con riemergesse dal fondo oscuro di un individualismo tanto irreale quanto diffuso e propagandato. Non è lo Stato che ci tiene insieme, non è la separazione individuale che ci basta; né il gioco tra questi due poli astratti genera qualcosa. Istituzione pubblica e individualità separata non danno motivazione al vivere insieme, e nemmeno a se stesse.
Eppure famiglia, comunità, nazione sono state tra le parole più maltrattate e attaccate da decenni. La globalizzazione, a sua volta, ha incentivato uno stile individualista: una situazione planetaria ben suddivisa tra un globo tecno-finanziario pubblico e biografie private e frammentate è un’ideale condizione di governo.
Un globo tecnocratico, fatto di poteri forti e procedure efficienti, sembra avere la meglio sul «mondo della vita», con una potente riduzione dello spessore dei legami vissuti, delle esperienze condivise, delle comunanze partecipate, della vitalità sociale.
Ma, come ha scritto S. Weil con la consueta profondità, «avere radici è forse il più importante e il meno riconosciuto bisogno dell’anima umana. […] Un essere umano ha radici in virtù della sua reale, attiva e spontanea partecipazione alla vita di una comunità che preserva nella sua forma di vita certi tesori particolari del passato e certe particolari aspettative per il futuro» (Bisogno di radici, 1952). Per cui, «anche nella società dell’individualismo trionfante e della comunicazione di massa» la comunità resta «il luogo della elaborazione del legame sociale elementare» (D. Hervieu-Léger, Religione e memoria, 1993).
Anche se in un mondo frammentato e fragile, è facile fraintendere la comunità come forma di rifugio, introverso o aggressivo, nei confronti di ciò che è altro, la comunità autentica non è mai fine a se stessa, né duramente immunizzata verso ciò che le è esterno. Communitas – ci ha ricordato R. Esposito – proviene da cum + munus, è compartecipazione di un munus, un bene ricevuto (dal passato) e un compito operoso (per il futuro): la comunità proprio nella sua particolarità è sempre portatrice di qualcosa di universale, proprio come avviene nell’arco di tante realtà che vanno dalla famiglia alla nazione.
Anche la nazione ha, nella sua etimologia, la memoria del suo valore: luogo di nascita dell’umano storico e sociale, a cui fornisce radici e propone identità e motivazioni. Bisogna riscoprire il fondo nazionale del sociale. Una società organizzata ha come presupposto della sua coesione il radicamento in un vissuto stratificato fatto di terra, legami etnici, lingua o lingue, di inclinazioni morali, criteri di comportamento, tradizioni religiose, forme culturali, ecc.
Solo così lo Stato trova la sua giusta collocazione, sovvertendo il modello statocentrico moderno (di cui il nazionalismo è una variante, come ‘nazionalità di Stato’ in cui la nazione è ridotta a servizio del potere e del prestigio statale). Per questo relazione fiduciale nazionale, efficienza sociale, giustizia istituzionale sono fattori in un rapporto circolare tra loro, indispensabili all’esistenza sana di un’entità politica. Forse anche il problema europeo, sempre più acuto, ha qualcosa a che fare con tutto questo.
Senza un risveglio della società nazionale e civile, la convivenza è sempre più a rischio di coesione (per cui non bastano gli incentivi del benessere), di motivazione (per cui non bastano i diritti formali), di umanizzazione (per cui non bastano discorsi su nuovi umanesimi). Ma, una volta che un deserto antropologico avesse inghiottito famiglia, comunità, nazione, come si penserebbe di affrontare il problema delle ‘risorse umane’ necessarie a sostenere l’impatto davvero epocale con le ulteriori emergenze che ci aspettano, con le grandi trasformazioni che si impongono, con le decisive innovazioni di cui dovremo essere capaci?
Il senso di appartenenza, che la spontanea risposta solidale all’emergenza sanitaria ha portato alla luce, è un segnale di cui compiacersi, ma ancor più da leggere in profondità.
Dino Cofrancesco dice
Sono d’accordo con quanto scrive Botturi:« una volta che un deserto antropologico avesse inghiottito famiglia, comunità, nazione, come si penserebbe di affrontare il problema delle ‘risorse umane’ necessarie a sostenere l’impatto davvero epocale con le ulteriori emergenze che ci aspettano, con le grandi trasformazioni che si impongono, con le decisive innovazioni di cui dovremo essere capaci?» Mi lascia perplesso, invece, la polemica contro il «modello statocentrico di cui il nazionalismo è una variante» (quando i cattolici mediteranno sulla lezione di Paolo VI che aveva ringraziato il Risorgimento italiano per aver liberato la Chiesa dal fardello temporale?). Lo Stato moderno, lo stato nazionale, è la laicità, sono i diritti individuali, la separazione tra religione e scienza, diritto e politica, economia e morale. Le guerre ci sono sempre state e a renderle violente è lo spirito di crociata–liberazione del Santo Sepolcro, espansione dei ‘lumi, adempimento di una missione nazionale. Non so se il recupero del senso di appartenenza a una grande comunità politica sia ancora possibile ma certo parlare di ‘nazione’ italiana senza radicarla nello stato nazionale italiano, nel ‘mito di fondazione’ del Risorgimento, nell’orgoglio dell’appartenenza alla patria di Cavour, di Mazzini, di Manzoni, di Ricasoli, di Garibaldi etc. etc.,.« cotal vestigio in terra di sé lascia, / qual fummo in aere e in acqua la schiuma»
Francesco Botturi dice
Ringrazio delle osservazioni, che mi permettono di evidenziare la mia proposta interpretativa.
Quanto all’affermazione di Paolo VI non c’è che da riconoscerle la saggezza del grande Papa, che leggeva un profilo provvidenziale in eventi comunque dolorosi per la Chiesa e la cristianità del tempo: un’aggressione che ebbe anche l’effetto preterintenzionale di una liberazione. Non possiamo che convenirne, anche se modalità e contesto portavano i segni della violenza e della sopraffazione. Basta non confondere i diversi prospetti della cosa.
Ma, appunto, anche Porta Pia appartiene a un contesto assai problematico in cui veniva a trovarsi il rapporto tra Stato e Nazione. Senza un forte, a volte eroico, senso nazionale il Risorgimento non sarebbe stato possibile. E’ un’ovvietà che va ricordata per non circuitare nazionalismo risorgimentale e Stato nazionale: questo è un effetto di quello secondo una delle sue versioni. Il nazionalismo di Cavour, di Mazzini, di Cattaneo non sono identici e avevano soluzioni politiche statuali diverse; per cui la soluzione vincente, quella sabauda cavouriana, non può impadronirsi dello spirito e del patrimonio patriottico e metterla in discussione non significa sconfessare il guadagno storico dello Stato unitario (stato di diritto e laicità compresi), ma discuterne il rapporto con la Nazione.
Ora, la sintesi sabauda dello Stato unitario presenta i caratteri tipici dello statalismo (che si profila nella tradizione europea continentale che va da Hobbes e Hegel), in cui lo Stato è sovraordinato in senso e valore alla Nazione che di principio subordina a sé, uniforma, e dirige in funzione del suo potere e prestigio. Il Regno d’Italia si stabilizza in opposizione alla Chiesa (Porta Pia e legislazioni antiecclesistiche), in antipatia verso il sentire religioso e cattolico della maggioranza della Nazione (la sua laicità è intrisa di laicismo), monopolizza ideologicamente scuola e università, non integra le culture regionali, e non prospetta forme di autonomia, tratta il Meridione con la durezza dell’invasore, ecc.
Uno Stato, tanto più ispirato all’astratto universalismo illuminista, non è in grado di unificare creativamente, ma solo uniformare burocraticamente. Non è difficile vedere in tutto ciò i lineamenti di problematiche storico-sociali che arrivano ai nostri giorni e ancora gravano sul nostro Paese. Il senso autentico della Nazione, a mio avviso, sta nel patriottismo (attaccato a un patrimonio storico concreto, ma insieme magnanimo), non nel nazionalismo di Stato (strumento di potere e perciò ideologico e aggressivo).