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Bisogno di comunità e sovranismo. Tra derive nazional-populiste e afflati liberali

6 Giugno 2019 di Carlo Marsonet Lascia un commento

Non è facile districarsi tra parole e concetti vari che, da un momento all’altro, vengono catapultati prepotentemente al centro della scena politica. In questo senso, il ruolo svolto dai mass media è di importanza cruciale. È ad essi, soprattutto, che dobbiamo il proliferare di neologismi o concetti utilizzati a sproposito, deprivati di quella linfa che li contraddistingue e che, a lungo andare, rischia di inaridirsi. Il termine populismo, com’è ben noto, è diventata forse la parola più utilizzata per descrivere un fenomeno: molto genericamente, qualunque nemico da abbattere, da squalificare aprioristicamente. In realtà, tale concetto ha una sua costitutiva pregnanza, anche se, come tutti i suoi studiosi sanno, è ostico incasellarlo una volta per tutte. Ma non è ciò che qui interessa trattare. Ciò che si vuol sottolineare è che a fianco ad esso – e in parte quasi da esso sostituito: quando si dice che le ‘mode’ sono passeggere – è emerso con veemenza il sostantivo ‘sovranismo’ – e l’aggettivo collegato ‘sovranista’ – per indicare tutta una serie di fenomeni, dalla connotazione altamente negativa, che vanno da nazionalismo a fascismo.

Sartori giustamente ammoniva dal farsi prendere dal ‘novitismo’, ovvero «l’ansia di essere nuovi ad ogni costo, e costi quel che costi». Una sorta di ricetta ‘progressista’ che non è in grado di guardare al passato e al presente per analizzare i fenomeni, ma rivolge lo sguardo sempre verso l’orizzonte e il futuro. Si dimentica, però, come insegna Burke, che «i popoli che non si volgono indietro ai loro antenati non sapranno neanche guardare al futuro»: parafrasandolo, se non si tiene conto dei concetti e delle analisi passate, il rischio è quello di ingarbugliare la matassa che si vuole sciogliere. L’utilizzo del termine, a detta di chi scrive, va utilizzato con parsimonia e accortezza. Nondimeno, esso può racchiudere una molteplicità di fenomeni e, ancor meglio, alcuni tratti specifici di essi. In tal modo, a patto che non se ne abusi, può risultare un ausilio efficace.

In realtà, non vi è unanimità circa il suo contenuto. Sergio Romano, ad esempio, in un articolo (Nazionalismo e sovranismo: ecco perché non sono sinonimi, «Corriere della Sera», 11 maggio 2019) ha proposto di distinguerlo dal nazionalismo, giacché se quest’ultimo era in primo luogo un’ideologia che si accendeva contro un nemico esterno alla statualità nazionale, il secondo, ovvero il sovranismo, sarebbe soprattutto l’ostilità nei confronti di alcuni principi, regole e valori interni, peraltro ispirati da autorità o istituzioni internazionali, come l’ex ambasciatore ammette, quali la democrazia rappresentativa, l’economia sociale di mercato, i diritti delle minoranze e così via. L’autore di un volume sull’argomento, Giuseppe Valditara, al contrario, non fa del sovranismo un concetto negativo, come sembra trasparire dal pensiero dell’editorialista del Corsera. Anzi, esso è in buona misura la nostalgia nei confronti di una Weltanschauung di stampo comunitaristico-identitario: è la reazione al globalismo progressista imperante, in buona sostanza.

Ebbene, secondo questa visione, il sovranismo può essere il ritorno a un mondo, o perlomeno a una parte di esso, in cui le idee progressiste e razionalistiche delle élite vengono soppiantate dal ritorno in auge di realtà e istituzioni più prossime ai cittadini e, soprattutto, non edificate in modo burocratico-razionalistico. Da qui, nondimeno, prende avvio una biforcazione. Il sovranismo può percorrere due strade, l’una antitetica all’altra: da un lato può essere declinato in modo ‘nazional-populista’; dall’altro può, se non condividere in toto, almeno muoversi per un pezzo, e limitatamente a certe posizioni comuni, insieme a una visione liberale della politica.

Secondo il ‘nazional-populismo’, come concepito da Pierre-André Taguieff, la posizione centrale è rivestita dall’identità di un popolo. In questo senso, si mescola un afflato protestatario tipico del populismo nei confronti dell’establishment (politico, economico, intellettuale) a una reiezione per lo straniero, percepito come una minaccia alla purezza di una nazione. A ciò, però, si aggiunga tutta una serie di avversioni nei confronti di macchine anonime e razionalistiche, esterne ai confini nazionali, che hanno fatto perdere la rilevanza dovuta alla statualità nazionale. Siano l’Ue o organismi internazionali vari, essi hanno assunto una forza e una centralità che piano piano hanno svuotato, e continuano a svuotare, di ogni contenuto vitale la dimensione comunitaria, sia statuale che pre-statuale. Ed è proprio qui che sta il punto e la parziale opportunità liberale. Una visione scettica o critica della politica, com’è propria di un liberalismo à la Hayek od Oakeshott, per fare solo due illustri nomi, non può che guardare con diffidenza a tutte quelle centrali politiche affette dal morbo ‘razionalistico’ e regolatorio (sul punto si veda La via ‘illuminata’ al sovranismo, Carlo Lottieri, «Il Giornale», 25 aprile 2019). Senza contare, in aggiunta a ciò, che sovente sono state le istituzioni promotrici di quell’idealismo moralistico di stampo progressista che ha eroso le basi dell’individualismo moderno sano, come ha ben sottolineato Kenneth Minogue in un volume uscito qualche anno fa (La mente servile. La vita morale nell’era della democrazia, tradotto in Italia nel 2012 dall’IBL).

In sostanza, il sovranismo può essere, forse, un’opportunità per le società politiche contemporanee. La ricerca della comunità, da cui esso sgorga, «è universale ed eterna», come ha ben scritto Robert Nisbet. Christopher Lasch con un’erculea espressione ha sintetizzato tutto ciò: «Lo sradicamento sradica tutto, salvo il bisogno di radici». D’altro canto, tuttavia, per chi predilige un orientamento liberale (rigorosamente classico), il ritorno a comunità organiche e tendenzialmente chiuse, cui il sovranismo può instradare, non è una prospettiva esattamente edificante. Dopo tutto, ripartire da Gemeinschaften pure, oltre che potenzialmente periglioso, risulta anche un fine assai improbabile in un mondo interconnesso e interdipendente. Si tratta di conciliare comunità e società, non già considerando l’una l’antitesi dell’altra, bensì come due inestricabili riferimenti che, impastati, creano le condizioni per un’esistenza complessivamente piena e felice.

 

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