Ho apprezzato il commento di Umberto Curi alle recenti dichiarazioni di Barbara Balzerani, prive del più elementare rispetto umano per le vittime della lotta armata e per il dolore dei loro familiari. Condivido anche l’esigenza di una più approfondita analisi sulla nascita del fenomeno brigatista per meglio inquadrarlo in quel complesso periodo storico caratterizzato da radicalismo ed effervescenza collettiva che caratterizzò l’Italia degli anni settanta. Non condivido, invece, il giudizio di Curi sul carattere organicamente marxista-leninista delle Brigate rosse e di organizzazioni similari. E spiego perché.
Come è noto esiste una vasta letteratura sugli aspri conflitti che contrapposero i menscevichi ai bolscevichi sul tema dei modi e dei tempi adatti a realizzare la rivoluzione socialista nella Russia zarista. Il dibattito era alimentato dalla preoccupazione di non ripetere gli errori del blanquismo che aveva ingenuamente creduto nell’azione esemplare e violenta, di un gruppo di rivoluzionari operanti nella clandestinità, come detonatore della rivoluzione. Mentre i menscevichi predicavano la gradualità dell’azione politica, i leninisti ritenevano che si potessero accelerare i tempi del processo rivoluzionario. Per tale aspetto i leninisti avevano in comune con i blanquisti l’idea che l’azione rivoluzionaria andava realizzata da un’elite operante nella clandestinità, e con l’uso della violenza. Ma i leninisti si distinsero dai blanquisti per due aspetti cruciali: per evitare le azioni esemplari dei blanquisti, che si concludevano con la loro morte o cattura, studiarono con molta attenzione l’evoluzione politica interna per individuare le condizioni più adatte alla sollevazione antizarista e le riscontrarono, più per opportunità che per merito, nella situazione oggettivamente pre-rivoluzionaria provocata dalle devastazioni subite dalla popolazione durante la partecipazione della Russia zarista alla I guerra mondiale. I bolscevichi, inoltre, si mossero solo dopo aver stabilito forti legami politici con i famosi soviet dei soldati, dei contadini e degli operai che facilitarono enormemente il compito della sollevazione del proletariato russo.
Diversamente dai marxisti-leninisti russi i brigatisti italiani hanno compiuto il grave errore politico di aver interpretato come una situazione pre-rivoluzionaria quella che in realtà fu l’accelerazione del processo di modernizzazione del nostro paese, che avvenne attraverso l’emancipazione politica del movimento sindacale – tra il 1968 e il 1972 le lotte sindacali furono le più lunghe e le più radicali di tutto il continente europeo – e attraverso l’emancipazione culturale delle nuove generazioni che contestarono un sistema di valori arretrato dominante nelle famiglie, nella scuola, nei rapporti tra i sessi. Oltre al grave errore politico, ma ad esso strettamente collegato, i brigatisti caddero nell’abbaglio ideologico di aver pensato di poter di indirizzare con le loro azioni esemplari un proletariato ritenuto pronto per la rivoluzione. L’analisi politica sbagliata e l’abbaglio ideologico, reso manifesto dal fatto che non si crearono mai – in nessun momento – le condizioni per una mobilitazione popolare in armi, condannò i brigatisti alla ripetizione delle pratiche blanquiste, che furono anche la causa della dissoluzione del fenomeno dei gruppi armati. Alla fine, le conseguenze della lotta armata, anche questa è storia nota, furono opposte a quelle sperate dai brigatisti perché provocarono l’allontanamento di tante persone dalla politica attiva e la fine della stagione delle grandi aspettative di rinnovamento politico del nostro paese.
Liborio Mattina dice
Mi pare che il compito dell’analista politico non sia quello di misurare quanto sincera sia l’adesione ad una determinata ideologia da parte di un partito o movimento politico, quanto piuttosto di rilevare il grado di coerenza tra assunti ideologici e comportamenti concreti. Tale analisi offre gli elementi per dare una corretta collocazione storico-politica dell’attore politico esaminato.
Dino Cofrancesco dice
Sinceramente non capisco il discorso di Liborio mattina. Se uno si proclama marx-leninista e al marx-leninismo ispira pensiero e azione, io tale lo considero. Certo posso ritenere che la sua strategia, in un certo contesto, sia poco realistica ma questo è un altro paio di maniche. Posso anche ritenere che tale strategia sia in contrasto con i presupposti dottrinali ai quali si rifà ma, nel caso del marxismo, qual’è la strategia giusta? Marx esaltò la Comune di Parigi (alquanto blanquista) e vi vide un modello rivoluzionario esemplare anche se in privato ironizzò ferocemente sui comunardi. Insomma l’agire che si fa derivare da una ideologia è un conto, l’adesione sincera a quella ideologia è un conto ben diverso.
Liborio Mattina dice
Mi pare che il compito dell’analista politico non sia quello di misurare quanto sincera sia l’adesione ad una determinata ideologia da parte di un partito o movimento politico, quanto piuttosto di rilevare il grado di coerenza tra assunti ideologici e comportamenti concreti. Tale analisi offre gli elementi per dare una corretta collocazione storico-politica dell’attore politico esaminato.