Evocare a gran voce il cambiamento è molto popolare. Tutti lo esaltano, tutti a pontificare che è necessario cambiare per evolversi, per fare qualcosa di nuovo, tracciare nuovi sentieri del proprio vivere e magari della storia. Nella realtà pragmatica, al di fuori dei proclami, le cose stanno diversamente: il cambiamento è vissuto sempre come un virus destabilizzante, capace di sovvertire gli equilibri in un modo talmente radicale da non lasciare spazio alle cose di prima, alle posizioni acquisite, alle gerarchie esistenti. Chi esalta il cambiamento in genere lo teme e ne evoca l’avvento unicamente a titolo scaramantico, sperando così di sfuggire ad un nemico che si nomina per tenerlo lontano.
L’umanità è estremamente abile nel trovare soluzioni di comodo. Rispetto alla malattia del cambiamento ha elaborato un antidoto feroce, subdolo ed efficace, estremamente versatile nel permettere di cavalcare indenni più fronti senza colpo ferire. Così almeno si pensa. L’ipocrisia, nelle sue infinite sfumature, è il presidio farmaceutico più utilizzato per conservare annunciando un desiderio di cambiare del tutto fittizio, quanto più altisonante tanto più assente. L’ipocrisia è il rampicante che parassita la pianta adeguandosi alle sue curve, inserendosi in ogni spazio, occupando tutta la superficie disponibile, utilizzando lo stesso nutrimento della pianta ospite per dirottarlo alla sua finale distruzione.
La guerra, questa guerra, dovrebbe obbligare il cambiamento che impone una rilettura radicale delle categorie, delle convenzioni, del modo di pensare, del modo di agire, del modo di comunicare e del modo di presentare. Dovrebbe obbligarci a vedere che ci siamo persi qualcosa per strada, la dignità del gesto che irrompe su fiumi di parole inutili e di circostanza. Dovrebbe, perché la naturalezza con cui viene di fatto accettata continua a dimostrare ciò di cui sono convinto da sempre: ricordare, il ricordare da cerimonia, il ricordare da studioso, il ricordare per fare delle belle lezioni, non serve. Il suo unico risultato è la declamazione di sermoni noiosi e stanchi, propinati da ogni dove, da ogni singolo relatore più o meno esperto che si presenta a parlare, guarda un po’, della guerra, esercizio di un risiko macabro, tanto più macabro quando giocato su fondali posticci, in una scena teatrale di comparse che aspirano a una gloria istantanea e artificiosa nei media contemporanei, scena approntata con il mestiere di un B movie hollywoodiano per portare audience piuttosto che stimolare solidarietà.
Il palco della guerra è ancora più appetibile di quello del covid perché ha come protagonista il cannibale onnivoro delle esistenze che priva di ogni alternativa che non sia vivere o morire, reagire o soccombere. Pochi resistono dalla tentazione di lanciarsi nella singolar tenzone delle opinioni prive di rischio, pochi resistono alla possibilità rara di emergere in questo marasma di autocelebrazioni che stonano profondamente con i morti sul campo. In alcuni casi l’ansia di emergere nella disgrazia può essere anche utile alla notizia, ma il più delle volte è puro sciacallaggio in guanti bianchi.
L’ipocrisia sa vestirsi da solidarietà e attivismo fino ad un passo dal baratro, quello che chiederebbe il vero coinvolgimento, la recita sa calibrarsi con precisione millimetrica per fermarsi appena prima del rischio di dover fare qualcosa, o anche di ammettere che non si riesce, posizione legittima, a fare qualcosa.
Si sbandierano unità ritrovate, resurrezioni dell’occidente, magari qualcuno dice ancora che andrà tutto bene, la Realpolitik preme con baldanza concreta sull’idealismo in stile social. In questo non vedo gerarchie di valori. Sono tutte manifestazioni di un unico alveo ipocrita, dove tutto si placa a un certo punto, lasciando parlare le bombe, così efficaci nel loro spettacolo gratuito e magari in ultra HD.
L’Europa è una grande cosa, ne sono convinto, ne sono un fan senza riserve. Ma l’Europa non può essere più il luogo dei minuetti sussiegosi e reciproci in cui si scambiano favori o dispetti dentro uno scenario dalla diplomazia letargica e funzionale al mantenimento dei seggi. L’Europa per esistere deve difendersi. L’Europa per esistere deve essere in grado di contrastare il bullo di turno che con la tracotanza dei suoi massacri a cielo aperto è riuscito a riportare in auge gli incubi della Polonia nel ‘39. Diversamente è un esercizio normativo, una assemblea di mutuo soccorso alla ricerca di un tutore che sicuramente non è gratis e che comunque ci pensa bene, e forse giustamente, prima di dire la sua sul campo. La questione ucraina è, deve essere, questione europea. I salotti televisivi impazzano con i loro soloni a la page e sinceramente non ne posso più della pratica di un esercizio sterile, accademico e autoreferenziale che si propone come la svolta del secolo quando con la concretezza del fare non ha nulla a che vedere. Parole, parole, parole, plastici, teorie, bandierine, facce da talk show, makeup e luci di scena ineccepibili, primi piani il cui retropensiero da prima serata è fin troppo evidente. I migliori amici delle fosse comuni.
Capisco la paura, capisco la necessità di salvare il salvabile, capisco anche chi non vuole intromettersi: non è giusto, ma è umano. Ciò che è disumano e vigliacco è trincerarsi dietro la barriera di una maschera che non si è, che impedisce giudizio, scelta e ravvedimento. Disumana è la finzione ipocrita di una società che non vuole ammettere di lavorare unicamente ai propri interessi. O meglio: quelli che crede i propri interessi, fino a che il bullo busserà alla sua porta.
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