[Il contributo qui presentato riprende la riflessione sulle campagne elettorali avviata con l’analisi retrospettiva degli studi 1994/2013, pubblicata il 3 dicembre 2018, ricontestualizzandola ora alla luce della situazione contemporanea]
- Perché i populismi al tempo del doping dei media
Il primo problema interpretativo che la diffusione dei populismi pone è quello di capirne in profondità le ragioni. La sua fortuna rappresenta, infatti, un paradosso abbastanza clamoroso perché è in contraddizione con tanti trend: l’aumento della scolarizzazione, soprattutto universitaria, con la trasformazione delle diete informative, anch’esse complessivamente aumentate, e infine con tutti i segnali relativi ai consumi culturali di qualità (teatro, musica classica, musica live, visite ai beni culturali, lettura di libri, etc.), stabilmente in crescita dal 1993 ad oggi. Nonostante il temporaneo rallentamento verificatosi nel biennio 2012-2013, tutte le attività outdoor a vocazione ampiamente culturale chiudono l’excursus storico lungo più di un ventennio con un significativo segno positivo (fatta eccezione per la frequentazione di discoteche e balere che, di anno in anno, sembrano diminuire sempre più il loro potere di seduzione nel ventaglio degli intrattenimenti outdoor). Un dato particolarmente interessante per cogliere appieno le istanze di rinnovamento culturale dei ‘nuovi’ pubblici delle culture outdoor si rintraccia nell’aumento di tutti quei consumi culturali storicamente appannaggio delle ‘élite intellettuali’. Se il cinema conferma il suo primato nelle pratiche del loisir (stando ai dati Istat resi noti nel 2017, più della metà degli italiani dichiara di andare al cinema almeno una volta l’anno, con un aumento di 11,5 punti percentuali rispetto al 1993), tendono a crescere e ad ampliarsi i pubblici di quelle attività che sottintendono una più elevata competenza e qualità di scelta, come il teatro e le visite a mostre e musei.
C’è dunque un mondo non ben censito dagli studi, se non con approcci innovativi ma indiziari, che delinea un vero e proprio movimento – e dunque un pezzo di società – che fa della partecipazione culturale il proprio asset di benessere e di distinzione senza però coltivare un minoritarismo di maniera: sono i diversi pubblici dei Festival culturali, ma in generale un fenomeno ben più esteso di nuova disponibilità ed attenzione per manifestazioni, eventi pubblici, visite culturali, beni della tradizione, arte e archeologia, fino alla presentazioni di libri.
Dobbiamo guardare alla cultura come al tempo in cui un mondo nuovo può fondare una diversa capacità di felicità individuale finalmente non polemica con il patto sociale. È altrettanto innovativo il bisogno di cultura che si intravvede in alcune dimensioni della contemporaneità accumunate dallo stare insieme, sotto la spinta di precisi bisogni simbolici vissuti in comune: pensiamo ai Festival della letteratura, della lingua, della filosofia, dell’economia e via dicendo. Ma anche ai grandi raduni live per condividere, con impressionante cessione di disponibilità e sovranità individuale, i suoni e la musica. Ma è coerente chiamare in causa quel ribollire di iniziative collettive che chiamiamo genericamente eventi, che sembrano porsi come sfuocate, ma non per questo meno attendibili, foto dei moderni con gli altri, senza dimenticare le nuove e sorprendenti disposizioni a stimoli ricchi e positivi che ci sono sempre state come musei, libri e lettura, beni culturali o la scoperta dell’esperienza del paesaggio. Occorre dire con forza che sia in una direzione comparativa con il passato, sia nel confronto con altri paesi chiaramente accostabili all’Italia, e infine nella qualità dei processi di cambiamento, il nostro presenta tutte le condizioni per sfidare un nuovo risorgimento culturale. Questo insieme di realtà e tendenze promette, in ogni caso, di essere espansivo, come avviene in altri paesi europei più simili a noi nei consumi culturali, non congiunturale e persino in larga misura indipendente dalla crisi economica; detto in altre parole, siamo di fronte ad un fenomeno anticiclico, che ha resistito persino ad una crisi severa come quella che ci stiamo lasciando alle spalle.
Perché allora, in questo scenario che presenta potenzialità e tendenze nuove, i populismi hanno attecchito così facilmente e soprattutto diffusamente? [NdA Ho anticipato questo tema nell’articolo Se la comunicazione mangia la politica redatto per Formiche, n. 142, dicembre 2018].
La risposta ovviamente non può che essere ottenuta per successive approssimazioni. In prima lettura occorre ipotizzare una dissonanza crescente tra due società imperniate su diversi sistemi di valori: l’una sulla partecipazione culturale, e dunque su un mix di competenze e aspettative immateriali e quasi post-moderne, che caratterizzano però strati crescenti di popolazione e prevalentemente le culture giovanili; l’altra è invece una coorte sociale, ben più ampia e quindi ancor più diversificata, che ha patito acutamente i costi della crisi economica, ma soprattutto morale del nostro tempo (una realtà follemente trascurata dagli studiosi), e che si compone sia di soggetti che nel loro complesso presentano minore scolarizzazione ed hanno maturato, nel tempo, un disagio e poi una vera e propria ostilità nei confronti della cultura formale.
2. La nuova comunicazione politica
Chi studia la società italiana senza subire eccessivamente la pressione delle mode sa che la comunicazione politica in Italia non è solo cambiata: ha subito una vera e propria torsione in termini sia di forza competitiva che di impatto sui pubblici. In verità, la domanda sui cambiamenti è inoltre poco precisa se non si interroga sui processi di sostituzione che media e reti stanno esercitando rispetto ai politici e agli stessi partiti. È come se il lungo declino delle ideologie, la rottamazione di una partecipazione non puramente costituita da applausi e dai ‘mi piace’, e soprattutto l’ennesimo rinvio di una rigenerazione di una politica fondata sui valori, avessero sinergicamente svuotato la politica della sua naturale dimensione etica, riducendo dunque la densità e la forza di mobilitazione della comunicazione politica.
Osservando, anche sulla base dei dati di ricerca, i risultati elettorali del 4 marzo, ed esaminandoli nella loro perfetta continuità tendenziale con quelli di 5 anni prima, appare ormai chiaro un crescente dispotismo dei media nel dettare l’agenda, le parole chiave, l’alimentazione e quasi il casting dei personaggi politici che media e rete riescono a trasformare in capitani più o meno coraggiosi di un talent della vita pubblica tutt’altro che entusiasmante.
Poche altre volte nella storia dell’Italia moderna reti televisive, testate e soprattutto rimbalzi chiassosi della rete hanno letteralmente messo in piedi macchine propagandistiche e schieramenti di fatto che hanno alla lunga documentato (cfr. Relazione conclusiva dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, La ‘par condicio’ nella campagna per le elezioni politiche del 4 marzo 2018) un collateralismo con vecchie e nuove proposte politiche da un lato e l’esercizio dell’informazione dall’altro. Tutto questo ha reso più difficile il compito di chi doveva sorvegliare il rispetto delle garanzie comunicative e una chiara indipendenza dell’informazione, che significa anche un minimo di parità di accesso ai media. E ciò è successo per due buone ragioni: da un lato, i potenti della comunicazione non nascondono qualche allergia di fronte al promemoria delle regole, dall’altro la qualità delle narrazioni politica, soprattutto a causa della degradazione dei talk show, ha rappresentato un pezzo dell’incattivimento e delle campagne/contro così tipici dell’amaro contesto sociale e politico che stiamo vivendo.
Una tale visione bipolare della società viene qui postulata senza accennare, se non indirettamente, all’impatto che può avere esercitato l’altro fatto radicalmente nuovo del nostro tempo e cioè la diffusione, persino disordinata, di nuove tecnologie e di sempre più scintillanti device per la comunicazione personale. Occorre infatti avere la forza di resistere alla tentazione di un’immediata connessione tra le due novità che più segnano gli anni che stiamo vivendo: da un lato la semplificazione comunicativa che si trasforma in facilismo culturale, e dunque in una presa di parola immediata e per definizione sincopata e asintattica; dall’altro, la scoperta che un set elaborato di partecipazione pubblica e consumi culturali di qualità può essere una risposta alla crisi dei punti di riferimento e persino all’atonia della partecipazione politica.
La presa d’atto che esiste comunque un pezzo di società che ha allargato la propria competenza e capacità comunicativa non ci esenta però da una risposta articolata alla domanda generale: perché i populismi e soprattutto la loro effervescente fortuna?
La risposta infatti non può essere che dentro i modi in cui i soggetti fronteggiano o soffrono, non tanto il cambiamento sociale, quanto il suo esito più clamoroso, e cioè l’accelerata modernizzazione dei valori e dei punti di riferimento. Eppure avevamo molti strumenti culturali a disposizione per capire che solo un pezzo di società, in forza di alcune certezze professionali, culturali e di status, sarebbe stato in grado di trasformare il cambiamento compulsivo in una rapida capacità di adattamento della mente e dei comportamenti, dando dunque la prova che dal cambiamento accelerato delle culture e dei valori si può uscire se si impara a sovrapporre ai mutamenti stessi una trama intellettuale in grado di ridimensionare il riverbero accecante del nuovo.
Qui è avvenuta una prima incomprensione, e forse persino una rimozione, legata alla circostanza che ricercatori ed intellettuali ‘partecipano’ dell’ambiente più attivo e psicologicamente disponibile al cambiamento, quello largamente riconducibile alle culture giovanili e intellettuali. E invece, più nel tempo moderno che in passato, l’obiettivo identitario degli studiosi dovrebbe essere quello di interpretare il nuovo e di offrirne una spiegazione plausibile. Ecco che si giustifica ampiamente il monito dell’antico Strabone che ricorda, soprattutto agli studiosi, la necessità di viaggiare alla velocità dell’ultima nave. E grazie a questo equilibrio dello sguardo scientifico che può avvenire quell’elaborazione in forza di cui si diffonde una vera e propria ‘tradizione del nuovo’ per ricondurre la tumultuosità delle trasformazioni entro schemi mentali e culturali preesistenti e già noti.
Gli stessi studi sul mutamento (non a caso più fiorenti quando esso era meno rivoluzionario di come si presenta oggi) avrebbero potuto ammonirci che i dislivelli, le dissonanze, i ritardi di allineamento rispetto ad un impetuoso messaggio di cambiamento propagandato acriticamente dagli immaginari dei media e delle tecnologie, sono una conseguenza matematica del ‘mondo nuovo’. Per definizione quando questo si afferma in assenza di una funzione di guida dei processi e di un’adeguata autorevolezza delle élite, si allarga il numero di quanti sono spiazzati e posti alla retroguardia dalla rapidità dei processi, rendendo più provocante e divisiva la presa d’atto di chi invece ce l’ha fatto ad accasarsi rapidamente nel nuovo ordine culturale.
Il cambiamento sociale non è una risorsa che sposta automaticamente una società se non c’è un’attenta manutenzione nei processi formativi e comunicativi di accompagnamento. In alternativa, le vittime a vario livello e intensità, sono probabilmente di più di quanti trasformano in risorsa la crisi di passaggio. Continuiamo a trattenere sullo sfondo il ruolo giocato dalle nuove tecnologie mediali, per concentrarci invece sull’importanza di alcune parole chiave ridefinite, e comunque riposizionate, dai processi di cambiamento. Anzitutto citiamo i valori, intesi come orientamenti culturali all’azione, e dunque capaci di arricchire di idealità e di senso la vita quotidiana e gli indirizzi di comportamento. In secondo luogo vanno citati i punti di riferimento e la loro influenza sulle scelte che ovviamente si combinano con i valori, ma alludono anche a quella dimensione che sociologia e psicologia sociale hanno efficacemente definito leadership dell’opinione.
La tendenza all’individualismo, la frantumazione delle classi sociali, lo svuotamento delle appartenenze politiche, hanno regalato al soggetto una quota di libertà così ampia da contribuire a forme di disorientamento e spaesamento piuttosto che ridurle o risolverle. L’esaurimento della concezione patrimoniale dei valori ha rigonfiato oltremodo la forza della comunicazione, che si è imposta in un vero e proprio deserto dei valori, travolgendo uomini e donne non più in possesso di quei punti di ancoraggio che avrebbero consentito loro di farne uno strumento di empowerment.
L’osservazione dei trend della contemporaneità evidenzia la percezione di un fenomeno rilevante: figure e quantità della comunicazione migliorano, soprattutto in relazione alla loro fruizione, mentre i contenuti non crescono quanto le competenze dei pubblici. E, d’altro canto, l’evoluzione delle pratiche comunicative non sembra riflettersi nel costume, nel comportamento politico, nella disponibilità all’altro. Fatica ad emergere quel rapporto simmetrico, dato ottimisticamente per scontato in passato, tra espansione della comunicazione e allargamento della socialità, ma entra in crisi anche l’idea di una relazione tra media e pubblico. Non a caso il prossimo intervento discuterà gli effetti del digitale sulla costruzione asociale della realtà.
Ferdinando Mach dice
PER ANNI LA STAMPA E I MEDIA HANNO CONDIZIONATO LA POLITICA .
OGGI LA POLITICA HA INDIVIDUATO LA PROCEDURA PER MANIPOLARE I MEDIA : CONFLITTO CONTINUO , ALTRO CHE SOVRANISMO .
È LA CONFLITTUALITÀ PERMANENTE IL MALE DELLE ATTUALI DEMOCRAZIE LIBERALI .
STATI UNITI IN TESTA.
NEL RAMO , GLI ITALIANI SONO SPECIALISTI .
ORMAI SOLO IL VOTO POPOLARE DIRETTO DEL GOVERNO ELETTO PUÒ SRADICARE QUESTA MALATTIA ENDEMICA .