I. Un’analisi retrospettiva degli studi 1994/2013
[Il prossimo intervento svilupperà l’applicazione dei contenuti qui discussi alla situazione contemporanea, a partire da una riflessione sulla ‘nuova’ comunicazione politica]
Lo studio delle campagne elettorali, per un ricercatore, implica di programmare il suo lavoro ex ante, rendendo così più trasparente l’operazione di anticipare ipotesi di lavoro e lo stesso metodo di verifica e di ‘scoperta’. Ho seguito questa strada per anni, occupandomi di campagne elettorali in modo sistematico e in diverse occasioni, che passo sinteticamente in rassegna nelle pagine che seguono.
Ma un ulteriore obiettivo di questa ricognizione è quello di dimostrare che la linea di tendenza emergente dalle migliori analisi dei dati elettorali (e ovviamente penso a tanti contributi a partire da quelli di Ilvo Diamanti), era già sufficientemente nitida non solo negli anni, ma forse nei decenni precedenti, a condizione di adottare un punto di vista empirico capace di tematizzare l’impatto della disintermediazione prima sulla società e poi sulla politica. Solo chi studia le cartografie sociali e della comunicazione può infatti prevedere ragionevolmente le scosse elettorali e i trend emergenti.
Segnalo, anche autocriticamente, che qualche volta ci è mancato il coraggio di credere nei dati e nelle previsioni documentate, talora verbalizzate e depositate persino prima dei risultati. E non è dunque inutile ripartire dai saperi accumulati nello specifico negli ultimi anni.
Gli studi sulle campagne elettorali. Una mappa di sintesi
a) Anzitutto, le elezioni politiche del 1994 sono state oggetto di studio del volume Elezioni di TV. Televisione e pubblico nella campagna elettorale ’94. Il volume, che rappresenta il primo rapporto di ricerca dell’Osservatorio sui media in campagna elettorale «Mediamonitor Politica», è il risultato di una larga coesione di sforzi da parte dei ricercatori, quasi sempre da me ispirati quando non coordinati, alcuni dei quali sono diventati specialisti di analisi della comunicazione politica.
[NdA Cfr. Introduzione. Le televisioni elettive, Media e politica alla prova del ‘nuovo’, 1. E tutti scesero in campo, 2. La ricerca Mediamonitor: motivi, valori e interrogativi aperti, 3. La telerendita. Se la Tv abbia condizionato il risultato elettorale. Sulle politiche del 1994 ho pubblicato anche gli articoli: Televisioni elettive. Il ruolo della Tv e dei media nell’evento elettorale, in «Sociologia e ricerca sociale», 46, 1995, e La telepolitica: polifonia e rappresentazione, in «Problemi dell’informazione», 3, 1994]
b) Più recentemente ho studiato le elezioni politiche del 2008 nel libro Perché la sinistra ha perso le elezioni?, con l’obiettivo di mettere a fuoco le ragioni che hanno contribuito alla sconfitta delle sinistre, in un contesto elettorale che sembrava andare verso un bipartitismo ‘normalizzatore’ del ‘caso italiano’.
c) Un ritratto del doppio bisogno di sicurezza, fisica ma anche ideologica e percettiva, dei cittadini-elettori in occasione della campagna elettorale per le politiche 2008 sono state oggetto di studio del volume Gli indecisivi, con una riflessione sull’incertezza politica ed elettorale. Questa volta, la coralità dell’analisi è andata oltre i confini dell’Università di Roma, includendo ricercatori degli Atenei di Sassari, Torino, Lecce.
d) I due editoriali per la rivista «federalismi.it» a ridosso (e dunque subito prima e subito dopo) del voto del 24 e 25 febbraio 2013 hanno introdotto una lettura sistematica della campagna elettorale per le elezioni politiche di quell’anno. La riflessione sulle politiche 2013 è stata poi ampliata e approfondita in un’ottica multidisciplinare nel volume Talk & Tweet.
[NdA cfr. Morcellini M., Una campagna eccezionale. La politica vecchia e nuova alla prova della battaglia elettorale, in «federalismi.it», n. 3, 2013; ID., Un risultato eccezionale. L’impatto del disagio giovanile e sociale sui risultati elettorali 2013, in «federalismi.it», n. 5, 2013]
In particolare, il primo capitolo Non desiderare la comunicazione d’altri. Una lettura sociologica della dinamica elettori/politica offre una lettura approfondita dei risultati elettorali partendo dalle analisi post-voto, che risulta ancora pertinente per capire quanto successo il 4 marzo 2018. Tra questi ricordiamo i dati di Demos&Pi sui risultati di voto per la Camera dei Deputati articolati per categorie socio-professionali, che rivelano la matrice interclassista del voto per il Movimento 5 Stelle e l’invecchiamento dell’elettorato del PDL e del PD (cfr. tab. 1).
L’analisi del successo del Movimento 5 Stelle alle elezioni politiche del 2013 è anche strettamente legata alle modalità e scelte comunicative di Grillo. I dati Cise 2013, infatti, evidenziano una relazione particolarmente forte tra il mezzo prevalente di informazione politica e il partito votato, determinando una differenziazione dell’elettorato dei vari partiti fortemente ancorata agli stili comunicativi e ai mezzi di informazione scelti (cfr. tabb. 2 e 3).
e) Infine, negli appuntamenti elettorali di Roma e Torino del 2016, che hanno visto la vittoria dei Cinque Stelle, ho partecipato, firmando anche l’introduzione, ad uno studio a più mani: La politica Partecipata. Ancora una volta, la ricerca è stata ampliata e approfondita nel volume da me curato con i due ricercatori che più si sono impegnati nella ricerca nel volume Dinamica Capitale, che si è connotato per la scelta di campo dei social media come elemento di impatto rilevatosi ovviamente assai significativo, se non decisivo.
I risultati del 4 marzo: la politica disintermediata
Sulla base di questi precedenti, e per meglio definire gli obiettivi di ricerca, assumo alcuni elementi di riflessione, che potrebbero essere seccamente riassunti con la seguente frase «ciò che si impara studiando le campagne elettorali italiane»:
- anzitutto occorre studiare i pubblici della campagna elettorale come straordinaria occasione di messa in trasparenza dei cambiamenti sociali, rivelatrice di dinamiche di interesse, partecipazione simbolica e articolate risposte mediali. Una scelta, questa, che ha il pregio di fare un regalo in più al ricercatore nel senso che sterilizza al massimo l’eventuale impatto delle passioni di parte;
- bisogna studiare il ranking dei contenuti, e dunque le parole-chiave, le insistenze semantiche o le vere e proprie ‘campagne comunicative’ che si registrano in specifiche stagioni e tendono poi a sparire nel post-voto (una prova indiziaria che sono i media a costruire la tag-cloud del discorso politico italiano);
- è infine necessario ricapitolare queste conoscenze entro una riflessione sulla nuova opinione-pubblica ma anche sul «tiro alla fune» (una celebre espressione di Herbert Gans) sempre più in corso tra politica e media, in una prospettiva storica. Questa scelta significa descrivere l’indebolimento della capacità di progetto, e di conseguente autonomia discorsiva, della politica italiana, ormai irriconoscibile dalla comunicazione politica.
A questi elementi cardinali di riflessione, la campagna elettorale per le elezioni del 4 marzo 2018 ha aggiunto alcune dimensioni specifiche che potrebbero però diventare strutturali se il sistema comunicativo italiano, nel suo complesso, non si farà quell’esame di coscienza a cui del resto non si è mai del tutto sottoposto [Cfr. Relazione conclusiva dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, La ‘par condicio’ nella campagna per le elezioni politiche del 4 marzo 2018]. Il tema è quello delle responsabilità in termini di vittoria di un modello comunicativo iniettato di semplificazione, e spesso di populismo linguistico, messo in circolo come un doping che ha peggiorato anzitutto la politica italiana e il sentiment di masse crescenti di consumatori/elettori (senza ovviamente dimenticare gli astenuti, forse il vero plus valore di questa crescente degradazione della comunicazione nel nostro spazio pubblico).
Affrontiamo allora quest’ultimo nodo partendo da un semplice assunto: subito dopo la campagna elettorale, gli stessi media che l’hanno architettata e alimentata ogni giorno l’hanno definita come «la peggior campagna elettorale vissuta dal nostro paese».
È un paradosso che i costruttori della campagna facciano outing sulla propria incapacità di costruire un modello di narrazione della politica innovativo e indipendente. Anche se il problema permanente è che occorre cercare di individuare indicatori sempre più raffinati e pertinenti con cui misurare la qualità dei discorsi pubblici nella comunicazione mainstream e, con più opportune cautele metodologiche, anche di quelli scambiati in rete.
Il primo indicatore consiste nella riflessione sulla semplificazione comunicativa, che va più rigorosamente definita come «populismo linguistico». Proviamo a elencare gli ingredienti che rendono questo indicatore come decisivo da affrontare se aspiriamo davvero ad una diversa qualità della comunicazione. Qui, l’analisi si affida semplicemente alla proposizione di alcuni items che verranno recuperati, in termini di prova ‘associativa’, nelle conclusioni di questo testo, e che così riassumo in termini preliminari:
- Anzitutto, l’impatto trasversale di una cultura dell’infotainment che si è rivelata, con il tempo, un vero e proprio massacro dell’autonomia dei generi e dei contenuti più storicamente riconoscibili dell’enciclopedia mediale. L’informazione è diventata altra cosa da quella del passato, tranne che nell’appuntamento canonico dei telegiornali; a sua volta, l’intrattenimento ha cambiato natura rispetto al «patto comunicativo» promesso dal suo stesso nome, e ormai abitualmente tende agguati agli spettatori infilando nel loro menu ‘spiedini misti’ di notizie e spettacolo, contenuti di qualità e divertimento, personaggi della cronaca e abbinamenti, spesso opportunistici, al casting dei politici.
- Un ulteriore ingrediente strutturale della semplificazione è il ricorso a quei generi giornalistici (già studiati da importanti linguisti non solo recenti) naturalmente meno impegnativi dal punto di vista della fatica mentale e professionale per elaborarli. Ciò avviene per un doppio motivo: un eccesso di mutuazione tra dispacci di agenzia e scarsa rielaborazione redazionale, e un’incredibile ripetitività nelle aggettivazioni e nelle formule linguistiche, così cara alla cronaca nera e al racconto delle migrazioni. Recupero, in proposito, una definizione, regalataci da Alessandro Barbano con il bel titolo del suo manuale sul giornalismo ispirato alla parola «fotocopia».
- L’aspetto paradossale di questa scelta sottocutanea da parte dell’informazione è che viene adottata perché giudicata altamente redditizia, rafforzando quella ‘società per azioni’ che ha accreditato sempre più la cosiddetta shock communication. E qui va chiarito che il contributo del contagio con l’eccesso progressivo di cronaca nera assicurato dai media italiani, si fonda sulla conveniente ignoranza di tutte le statistiche sull’andamento dei fenomeni criminali che, negli ultimi anni, risultano sostanzialmente stazionarie. Basta questo per sottoporre a contestazione la scelta irresponsabile di favorire, a parità di condizioni, l’anomia e il disordine sociale come se fossero davvero l’unico scenario delle nostre pur difficili esistenze. [Ho trattato a lungo il tema dell’impatto dell’exploit comunicativo della cronaca nera nel giornalismo e dei suoi effetti sulla società italiana, anche a prescindere dal contesto di campagna elettorale. Una piccola ‘summa’ dei risultati delle mie analisi è reperibile nel settimo numero della rivista «Comunicazionepuntodoc», che dirigo, intitolato La comunicazione in abito nero (2012)].
- Un quarto ingrediente essenziale di un’impalcatura che, alla lunga, finisce per distruggere l’autorevolezza dei media e delle emittenti, è la fortuna scomposta del talk-show, anche se in qualche caso non mancano segnali di capacità di innovazione di formule e stili espressivi.
Inutile aggiungere che questi indicatori vanno sottoposti ad un profondo riscontro empirico, ad esempio verificando l’effettiva capacità dell’investimento sulla cronaca nera di ingrossare, non congiunturalmente, le file dei pubblici, oppure attivando uno studio che metta a confronto la fortuna della fiction nei grandi sistemi televisivi, comparati con i pubblici dell’informazione e dell’intrattenimento.
Tanto per elaborare più arditamente l’ipotesi accennata, potrebbe consolidarsi l’idea, già avanzata altrove ma non certo solo da me, che la fiction sia diventato il genere più rassicurante anche a causa dell’inasprimento dell’informazione e della perdita di neutralità dell’intrattenimento e dell’evasione. Del resto, se si chiama evasione, non ti aspetti di incontrare carsicamente l’antipolitica alternata alla sapienza della comicità.
Senza voler anticipare qui quello che rischierebbe di porsi come una summa sul nuovo rapporto tra offerta di comunicazione e risposta dei pubblici, occorre per il momento anticipare poche conclusioni:
- La comunicazione, in tempi di crisi dei pubblici (e non solo quelli attratti dalle nuove piattaforme), tende a imporre temi sempre più divisivi, accende i toni, insegue e quasi costruisce curve di tifosi piuttosto che schiere di opinione pubblica;
- La scelta di questa postura incrina l’autonomia del giornalismo e dei comunicatori, anche perché crea un clima editoriale dominante fintamente ispirato a strategie ‘astute’ di rimediazione rispetto alle perdite di audience. Tutto ciò si traduce nella presa d’atto che la costruzione dell’agenda informativa, la selezione dei personaggi rilevanti e quella dei toni prevalenti nella narrazione, registra un progressivo aumento di decibel. Si snatura così la funzione di compagnia ai processi di cambiamento su cui pure la comunicazione ha costruito le sue legittime fortune.
- Questo andamento già innaturale si radicalizza nei tempi di crisi e, per definizione nelle stagioni di campagna elettorale, anche se c’è da dire che i media italiani sono scesi in campagna molti mesi prima che essa venisse dichiarata, evidentemente nella certezza che l’intensificazione del dibattito politico potesse aumentare significativamente l’interesse dei pubblici.
- È effettivamente possibile che qualche dividendo di pubblico si incolli ai media che più individuano una rendita nella costruzione dell’ipertensione sociale. Quest’ultima però è una terapia che non li salva dalla crisi ed anzi rischia di mascherarla alimentandola. Senza contare il danno alla lunga arrecato alle imprese e agli operatori dell’informazione dalla presa d’atto che corrode progressivamente la socialità, la coesione e la stessa idea che la società sia il risultato di un patto di riconoscimento tra le persone.
[NdA Anche su questo tema ho speso anni di ricerche e riflessioni comuni, che trovano un punto di sintesi corale nel numero monografico da me curato della rivista «Paradoxa», intitolato a I guasti della comunicazione (2, 2014)].
[NdR su elezioni, campagne elettorali e partecipazione politica, cfr. anche Aux urnes, citoyens, «Paradoxa» 1, 2013]
Andrea Melodia dice
Non ho neppure lontanamente le capacità di analisi di Morcellini e di altri studiosi, e mi affido alla sintesi giornalistica. Credo che dagli anni 70 la scuola abbia allargato l’area sociale di azione senza ottenere la precedente capacità di focalizzare la formazione valoriale, sfornando una massa di individui istruiti ma instabili. I media mainstream hanno inquinato ulteriormente l’ambiente diffondendo paure, falsi convincimenti e falsi bisogni. La improvvisa esplosione esponenziale della comunicazione digitale ha soffocato la comunicazione, sommersa da una massa preponderante di dati inutili, se non falsi. Il fenomeno della disintermediazione, in carenza di capacità di discernimento, è solo il goffo tentativo di liberarsi dalla oppressione dei dati inutili. Qualunquismo e populismo ne sono la deriva politica.
Poiché il fenomeno è globale, non è logico credere che sia vero quanto ho ritenuto negli anni, cioè che la responsabilità fosse prevalentemente dei nostri media mainstream, RAI in testa. E’ probabile che siamo di fronte a un gigantesco fenomeno ondulatorio, al quale la società forse sta già reagendo. Come aiutare la cura? C’è ancora molto da fare per disinquinare i media mainstream, con una grande pressione formativa sui professionisti della comunicazione. Ma ormai occorre anche mettere le mani nel sottobosco degli algoritmi che manipolano i dati nella rete.