Da molto tempo, sono disponibili diversi strumenti che consentono di controllare il funzionamento e la qualità della democrazia, appagando almeno in parte le crescenti richieste delle opinioni pubbliche di poter verificare costantemente l’attività degli eletti e riducendo così la forte sfiducia nei confronti della sfera politica. Lo sviluppo di queste istituzioni monitoranti ha però determinato anche dei cambiamenti significativi nell’architettura della stessa democrazia.
Infatti, John Keane – professore di Teoria politica all’Università di Sidney e al Centro di ricerca per le Scienze sociali di Berlino – ci invita a riflettere sul concetto di «democrazia monitorante» proprio per richiamare quel fenomeno di portata mondiale contraddistinto dall’invenzione di decine e decine di meccanismi di sorveglianza del potere che «hanno avuto l’effetto di mutare lo spirito, il linguaggio, la geometria politica e le dinamiche quotidiane della democrazia» (Potere e umiltà. Il futuro della monitory democracy, Hopefulmonster 2021, p. 25).
Diversi altri studiosi – si pensi, per esempio, alle riflessioni di Pierre Rosanvallon sulla «democrazia di sorveglianza» – hanno riservato un’attenzione particolare alle tante forme di controllo che ormai costellano i nostri sistemi politici, le quali sono effettivamente importanti perché consentono di denunciare gli abusi di potere, in molti casi anche grazie all’utilizzo delle opportunità prodotte dalla rivoluzione delle comunicazioni.
Quando possiamo collocare l’origine della «democrazia monitorante»? Keane la fissa almeno a una generazione fa e le trasformazioni che ha determinato sono tali da indurlo a sottolineare che oggi le elezioni sono sì importanti, ma i partiti e i parlamenti si trovano necessariamente a competere con questa miriade di organismi di vigilanza e di reti, capaci di tenere sotto controllo il potere arbitrario e di prevenirne i suoi eccessi. In tal modo, da un lato, i cittadini e i rappresentanti sono nelle condizioni di «umiliare il potere e l’autorità» (p. 26) e, dall’altro, le stesse istituzioni monitoranti sono in grado di ridimensionare il «culto dei numeri» tipico della democrazia della maggioranza (p. 120). Dunque, la democrazia monitorante favorisce la partecipazione attiva, ma allo stesso tempo la limita, poiché è strutturalmente contraria all’ipotesi teorica che possa esistere un monolitico ‘popolo sovrano’ in grado di rivendicare una sua pretesa superiorità e, pertanto, stride fortemente con le varie forme di populismo oggi variamente diffuse.
Alcuni potrebbero tuttavia pensare che la democrazia monitorante sia una formula che riassume le istanze volte ad abolire il divario tra rappresentanti e rappresentati, soprattutto se si tende a credere che lo sforzo di sorvegliare pubblicamente le attività di governo corrisponda a un impegno per la ‘democrazia della base’. Ma è lo stesso Keane a escludere categoricamente questa ipotesi, sottolineando come tutti gli esperimenti di vigilanza del potere si fondano inevitabilmente sulla rappresentanza e che, quindi, tutte le vertenze pubbliche in tal senso vengono affidate a mediatori che agiscono per conto o in difesa di altri (p. 125).
In breve, che cos’è allora la democrazia monitorante? È la «paladina pubblica di un’uguaglianza maggiore e complessa, ma non perché tutti gli uomini e le donne sono creati uguali. Al contrario, pensa che nessun uomo o donna sia in grado di governare in eterno i propri simili e gli ambienti terrestri in cui abitiamo e dai quali dipendiamo profondamente» (p. 68). In questi termini, si aprono sentieri di riflessione davvero significativi per il futuro: come conciliare un’uguaglianza ‘maggiore’ con le dinamiche minoritarie del potere? Come interpretare in termini nuovi il «principio di delusione» a cui è soggetta inevitabilmente la rappresentanza politica (p. 270)?
Infine – per concludere con un interrogativo genuinamente provocatorio – è davvero inevitabile assumere un atteggiamento umile per giustificare la democrazia, ossia un pensiero debole, seppur creativo e rigoroso (p. 66)?
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