Discutendo delle ripercussioni in ambito letterario della cancel culture, ho fatto riferimento al caso del romanzo di Mark Twain, The Adventures of Huckleberry Finn, e alle discussioni scatenatesi in merito all’opportunità d’insegnare un testo in cui l’adolescente narratore fa reiteratamente uso dell’offensivo termine nigger. Naturalmente Huck non fa altro che esprimersi nella lingua dei suoi giorni e a lungo questo non è stato percepito come un problema, dando per scontato che il romanzo esprimeva a chiare lettere un messaggio antischiavista e antirazzista.
In proposito basterà ricordare il parere del grande scrittore afroamericano Ralph Ellison, che – pur non ignorandone alcuni limiti – considerava Huck Finn uno dei testi più alti della tradizione americana proprio perché faceva dell’atteggiamento del giovane Huck nei confronti dello schiavo Jim il termometro morale dell’intero testo. Da un certo punto in poi, però, la discussione ha preso una piega completamente diversa e l’attenzione si è appuntata quasi esclusivamente sulla presenza di un termine offensivo, che si presume non possa che ferire un lettore nero, soprattutto se molto giovane.
Pur ritenendo sbagliati sia gli interventi censori sia la proposta di riscrivere il romanzo sostituendo il termine nigger con slave, per spiegare le ragioni di questo rigetto del testo, nel mio intervento ho suggerito che chi lo vuole ‘cancellare’ dai curricula scolastici ragiona come una persona preoccupata da un ipotetico testo in cui i personaggi femminili sono tutti identificati con un identico irripetibile epiteto. Ripensandoci, non sono più così sicuro che l’analogia sia calzante. Ho difatti riletto un provocatorio saggio di Peter Smagorinsky, il quale si chiede per l’appunto come reagiremmo se il co-protagonista del romanzo di Twain fosse una donna (Kim invece di Jim) etichettata, assieme a tutte le altre donne del libro, con il ripugnante termine cunt (ancor più offensivo del nostro troia). Il saggio di Smagorinsky è stato fortemente criticato sotto diversi aspetti, ma soprattutto perché sembra invocare (pur senza dirlo apertamente) un’autorità superiore preposta a decidere cosa sia legittimo leggere in una scuola o in un’università. Nel dibattito seguito alla pubblicazione del saggio, la studiosa afroamericana Jocelyn Chadwick, oltre a ribadire che il senso del testo di Twain non è riducibile all’uso di un termine ‘scorretto’, sottolinea come quei giovani che si vogliono ‘proteggere’ da termini che potrebbero ferirli, sono in realtà lettori molto più scaltri di quanto gli adulti pensino. Il punto, ovviamente, non è quello di ‘sdoganare’ come innocuo un termine che innocuo – per storia passata e presente – non è e non potrà mai essere. Si tratta, piuttosto, di ragionare assieme ai discenti, su come linguaggio, ideologia e società formino un intreccio complesso, fluido e di non scontata decifrazione. Da questo punto di vista, probabilmente, l’equazione Jim: Kim = N***** : C*** è fuorviante visto che se in un contesto ‘normale’ la parola nigger è impronunciabile, il termine, sia pure nella variante nigga, è assai diffuso nei testi rap e hip-hop (oltre che nel linguaggio di strada). La valenza del termine c*** credo sia piuttosto diversa. Ma comunque la si veda, c’è un altro problema con cui fare i conti.
Le richieste di ‘cancellare’ corsi che prevedono riferimenti a materiali caratterizzati da un linguaggio offensivo, oggi giorno sono raramente sollecitate da accademici ‘ideologizzati’ o ‘preoccupati’ (concerned) come Smagorinsky. Spesso sono gli studenti (o i loro genitori) a contestare l’insegnamento di programmi che farebbero sentire gli alunni ‘insicuri’ o ‘a disagio’. Clamoroso è il caso – e non è certo l’unico – che ha coinvolto nel 2018 Lawrence Rosen, un antropologo di Princeton che in un corso sullo Hate Speech (i discorsi che fomentano l’odio), ha pronunciato più volte il termine nigger, sia pure con intenti puramente illustrativi. Questo è bastato per scatenare la reazione di una parte degli studenti, che hanno accusato Rosen d’insensibilità, arrivando a paragonare la sua scelta di proferire quel termine (invece della perifrasi ‘the n-word’) alla violenza poliziesca nei confronti dei cittadini afroamericani. Purtroppo, dunque, non tutti gli studenti sono così smaliziati e aperti al confronto come quelli descritti da Chadwick. Le richieste di ‘cancellazione’ e censura nascono spesso da opinabili reazioni individuali, che ai tempi di Twitter e Instagram, vengono rapidamente amplificate, dando vita a processi mediatici in cui la discussione razionale è bandita a priori. Se tutto questo è cancel culture, allora si deve concludere che quel desiderio di partecipazione democratica che in parte ne ha costituito le premesse, qui si rovescia nel suo opposto: in una giostra impazzita in cui il confronto delle idee non va molto oltre il cliccare o non cliccare ‘like’.
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