Assistere alle mattane dell’indecente dibattito politico italiano e leggere al contempo – del tutto fortuitamente – alcuni scritti di Carl Schmitt può causare una sorta di ‘cortocircuito mentale’. Me ne sono accorto alcune sere fa quando, dopo aver visto l’ennesimo comizio travestito da talk show, con scene da trattoria di quart’ordine, sparate di ogni tipo e battute da caserma, ho incrociato alcune frasi del grande filosofo del diritto e della politica tedesco.
L’attenzione per Schmitt, nonostante la sua adesione al nazismo, non è mai venuta meno tra politologi, filosofi e giuristi. Troppo geniale e innovativo il suo pensiero per permettersi il lusso di trascurarlo. Né si sono fatti irretire dal paradigma del ‘politically correct’ parecchi intellettuali di sinistra che gli hanno dedicato articoli e libri, mettendone in luce l’assoluta originalità.
Colpisce soprattutto l’analisi impietosa della democrazia liberale e del parlamentarismo. Oggi sono considerati elementi naturali della vita politica dalla stragrande maggioranza di partiti e movimenti, pur con molte distinzioni. C’è chi esalta soprattutto la democrazia, accentuando la sua ispirazione egualitaria, e chi invece insiste sul liberalismo, anteponendo la libertà del singolo all’eguaglianza, considerata alla stregua di un’utopia irrealizzabile.
E tuttavia solo alcune esigue minoranze mettono in dubbio i fondamenti della liberaldemocrazia auspicando il passaggio a ordinamenti politici diversi, di sinistra o di destra. Le alternative radicali non sono di moda e vengono viste come proposte di tipo folkloristico, da non prendere sul serio.
Ogni tanto entrano in scena movimenti difficilmente classificabili, come per esempio quello di Beppe Grillo. Ma, anche in questo caso, l’alternativa al sistema – ammesso che ci sia – non è articolata in termini chiari e convincenti. Sembra più un’esaltazione della protesta fine a se stessa che il tentativo di ‘pensare’ un modo diverso di organizzare la vita politica, precisandone i rapporti con la sfera della società civile.
Schmitt affronta il problema in modo radicale, mettendo a fuoco i fondamenti ‘spirituali’ del parlamentarismo. A suo avviso anche il parlamento, come ogni altra grande istituzione, presuppone delle idee specifiche. Qual è, dunque, il fondamento spirituale cui ho appena accennato? Egli lo individua nella ‘discussione pubblica’, nel senso che tutte le norme e tutte le disposizioni parlamentari ricevono un loro senso anzitutto attraverso la discussione e la pubblicità.
Attenzione, però. Nucleo della concezione liberale è che il confronto paritario purifichi la natura accidentale e immediata delle opinioni e degli interessi dei singoli individui, consentendo, in ultima istanza, di giungere a un insieme abbastanza vasto di verità razionali condivise da tutti. L’interesse individuale è immediato, ma tale immediatezza viene sciolta all’interno del libero gioco degli interessi, i quali troveranno in quella sede il loro coordinamento.
Tutto bene, quindi? Solo in apparenza. Che succede se la maggioranza smette di credere alla bontà della libera discussione e dubita sia possibile avvicinarsi gradualmente, per suo tramite, alla verità e alla legittimità? Si verifica il corto circuito, poiché, secondo lo studioso tedesco, in qualsiasi ordinamento può esservi eterogeneità di scopi, ma non di principi. La costituzione di Weimar nascondeva in se stessa i germi dell’autodistruzione, offrendo ospitalità tanto ai suoi difensori quanto a coloro che volevano abbatterla. Di qui la necessità di un ‘principio di ordine’ definito in modo preciso, altrimenti Stato, Costituzione e Nazione diventano involucri vuoti che si possono riempire con i contenuti più disparati.
Lo stesso concetto di democrazia, nonostante l’opinione comune, risulta incompatibile con i principi che fondano il parlamentarismo. Se si intende essere conseguenti dopo aver proclamato l’identità di legge e volontà popolare, occorre ammettere che la democrazia non può avere come fondamento il pluralismo, bensì l’omogeneità. Parole dure, che senz’altro feriscono le nostre orecchie. Ma anche parole basate su una logica rigorosa che poco o nulla lascia al sentimento.
In realtà, il giurista tedesco riprende, estremizzandole, idee già presenti in Pareto e in Weber (per citare solo due nomi), rilevando l’aspetto prevalentemente irrazionale della natura umana e sottolineando quanto il mito e il capo carismatico siano importanti nell’attività politica. Viene pure evidenziata la sostanziale incapacità delle istituzioni liberali di controllare l’ingresso delle masse nella politica e l’illusione che le tecniche di governo siano sufficienti: «Non esiste politica senza autorità, né autorità senza un’etica in cui credere». E la fiducia nella sola pubblicità della discussione gli appare decisamente priva di fondamenti.
Tutti siamo a conoscenza di tante celebri e scontate obiezioni. Come sosteneva Winston Churchill, la democrazia è il peggior sistema politico possibile, tranne il fatto che non ve ne sono di migliori. Al governo dovrebbero andare i più competenti, ma come individuarli e con quali strumenti controllare il loro operato? E via di questo passo. Eppure il dibattito pubblico italiano e i personaggi, spesso farseschi, che lo popolano suscitano ‘cattivi pensieri’ anche in una mente disposta a riconoscere la validità degli ideali liberaldemocratici. Di qui il corto circuito di cui parlavo prima. Penso sia uno stato di sofferenza assai più diffuso di quanto si crede, e nessuno al momento è in grado di prevedere quale impatto avrà nel prossimo futuro.
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