Il caso del piccolo Alfie Evans non può non riproporre alla nostra memoria la vicenda dolorosa di Charlie Gard. Diverse, certo – occorre sottolinearlo – le due condizioni: Charlie era affetto da una rarissima malattia che poteva essere aperta ad una terapia sperimentale, seppure dall’esito incerto, mentre per Alfie mancava una diagnosi clinicamente certa, dal momento che non si conosceva la causa della sua patologia. E, tuttavia, le domande che ci poniamo per entrambi sollevano ancora una volta i massimi problemi della bioetica: il conflitto tra sacralità e qualità della vita, i rapporti controversi tra morale e medicina, la relazione complessa tra etica e diritto. Chi può stabilire i limiti di una cura? Qual è il potere degli ospedali sui pazienti? Quali i diritti dei genitori? Siamo tutti d’accordo sul rifiuto dell’accanimento terapeutico, da intendersi come «l’ostinazione in trattamenti da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità di vita» – e su questa base si è varata la recente legge sul biotestamento con una significativa convergenza tra differenti tradizioni morali, sia religiose che laiche – ma i due casi costituiscono un esempio emblematico di come il principio del rifiuto, nella sua applicazione a casi concreti, possa dar luogo a conflitti insanabili oltre che, come vedremo, a nuove forme di accanimento.
In un recente intervento su ParadoxaForum, Stefano Zamagni, riflettendo sull’ordinamento giuridico inglese, ricorda che risale al XVII secolo, sull’onda del neocontrattualismo hobbesiano, la tesi per cui la responsabilità per la cura e la tutela del minore ricade in parti eguali sia sui genitori che sul sovrano che agisce nella veste di parens patriae (genitore della patria). Il giudice del caso in questione, sentenziando che il trattamento non sarebbe stato nel miglior interesse di Alfie, non avrebbe pertanto rispettato la condizione di pariteticità. Mi sembra un rilievo del massimo interesse per il suo richiamo al necessario coinvolgimento dei genitori in una decisione che riguarda la salute del minore e che è loro diretta responsabilità garantire, autorizzando o meno determinati trattamenti. Per questo non ci si può non chiedere per quale ragione i genitori di Alfie siano stati di fatto privati della loro responsabilità genitoriale. Quale la loro indegnità? Quale il pericolo che si intendeva evitare? Si danno casi – classico è quello dei testimoni di Geova – che richiedono l’intervento di un giudice a tutela della vita del minore che sarebbe esposto a un rischio letale se prevalesse la volontà dei genitori che rifiutano per ragioni religiose le trasfusioni. Ma si tratta palesemente di casi ben diversi da quello di Alfie. Qui il pericolo era rappresentato non dalla morte, con l’affermazione del criterio del favor vitae, ma dal rischio che le cure intensive potessero trasformarsi in accanimento terapeutico, e quindi in trattamenti sproporzionati, gravosi e di documentata inefficacia. Il problema più difficile concerne il se e il quando interrompere le cure una volta iniziate ed è appunto in tal caso che può verificarsi un altro accanimento, quello familiare, pur animato dalle migliori intenzioni e motivato affettivamente, ma esposto potenzialmente anch’esso a un’ostinazione irragionevole, specie nei casi di prognosi infausta a breve termine o nell’imminenza della morte. Un accanimento, occorre aggiungere, che rischia di fondarsi su una idea proprietaria della filiazione e che tende ad assegnare un peso assoluto alla volontà dei genitori, in competizione, ancora una volta, con medici e tribunali.
È, tuttavia, quanto meno singolare che il rifiuto dell’accanimento terapeutico e il connesso timore dell’accanimento familiare, abbiano finito per dar luogo, attraverso mosse successive, ad un nuovo accanimento, questa volta giudiziario che ha privilegiato in modo esclusivo il potere giuridico, assegnando, per dirimere una questione di assoluto rilievo etico, ai tribunali la parola finale. Quella, si ricorderà, del giudice Heyden, che ha parlato di «futility of Alfie’s life». Una deriva, occorre aggiungere, assai grave per un paese che ha avuto il merito di introdurre per primo, come sottolinea ancora Zamagni, l’habeas corpus. Basti pensare alla rigidità di un sistema che giunge a vietare ai genitori anche il permesso di riportare a casa Alfie o di trasferirlo in ospedali di altri paesi pronti ad ospitarlo, con una palese violazione del diritto di libera circolazione garantito dai trattati internazionali. Se la bioetica ha introdotto la ‘rivoluzione liberale’ in medicina con l’affermazione del principio di autonomia della persona, non più oggetto ma soggetto delle scelte terapeutiche, non si può non rilevare con preoccupazione una crescente attitudine statalista e paternalista, sia sul piano medico che burocratico.
Al di là comunque delle diverse valutazioni, quello che è certo è che, per Charlie come per Alfie, è mancata l’alleanza terapeutica, il patto di fiducia tra medici e famiglia e non si è instaurata quella comunicazione tra i diversi soggetti che, prima di attivare meccanismi legali, avrebbe potuto forse consentire una condivisione sulle decisioni da assumere, tanto più importante dinanzi a scelte tragiche. Un esempio? L’American Society for Bioethics and Humanity parla di «Health Care Consultation», una consultazione sulla cura della salute che intende rispondere alle domande poste dai singoli pazienti, famiglie, operatori sanitari al fine di risolvere i conflitti riguardanti le questioni di valore che emergono nel percorso di cura, aiutando ad affrontare le questioni etiche coinvolte nello specifico caso clinico. L’etica assume un’innegabile rilevanza in tutte le situazioni in cui entrano in gioco le dimensioni esistenziali più profonde: nascita, malattia, sofferenza, dolore, morte. Fondamentale risulta pertanto la ‘competenza etica’, che richiede ai medici di pensare eticamente, oltre al possesso di tutte le evidenze scientifiche. Una competenza che comprende la capacità di identificare i problemi, di procedere alla loro analisi attraverso il riferimento critico alle teorie morali generali, di proporre soluzioni il più possibile appropriate valutando attentamente gli argomenti pro e contro, in una prospettiva fallibilista ma non rinunciataria, pronta ad ammettere e correggere gli errori. In questo quadro ci si riferisce a ‘un’etica delle procedure di consultazione’ le cui funzioni principali sono: l’analisi dei casi clinici particolarmente problematici; l’elaborazione di raccomandazioni su problemi etici ricorrenti; la promozione di programmi formativi finalizzati alla sensibilizzazione etica degli operatori sanitari. In tal modo l’etica potrebbe diventare uno ‘spazio’ comune nel quale le diverse professionalità si incontrino e non si scontrino.
Dinanzi a tragedie come quelle di Charlie Gard e di Alfie Evans siamo tutti chiamati a un difficile passo avanti nel dibattito etico che ci inviti a discutere su come e chi debba decidere e quali opzioni valga la pena la pena di prendere. Nella consapevolezza che trattamenti definiti a priori, magari per legge, offrano troppo o troppo poco e che nelle decisioni cliniche si combinano aspetti cognitivo-razionali ma anche affettivo-relazionali. Le decisioni, pertanto, non possono essere a ‘taglia unica’ ma andrebbero, per così dire, ‘modellate su misura’ delle singole persone, rispettandone il vissuto e la storia.
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