Non è facile districarsi tra parole e concetti vari che, da un momento all’altro, vengono catapultati prepotentemente al centro della scena politica. In questo senso, il ruolo svolto dai mass media è di importanza cruciale. È ad essi, soprattutto, che dobbiamo il proliferare di neologismi o concetti utilizzati a sproposito, deprivati di quella linfa che li contraddistingue e che, a lungo andare, rischia di inaridirsi. Il termine populismo, com’è ben noto, è diventata forse la parola più utilizzata per descrivere un fenomeno: molto genericamente, qualunque nemico da abbattere, da squalificare aprioristicamente. In realtà, tale concetto ha una sua costitutiva pregnanza, anche se, come tutti i suoi studiosi sanno, è ostico incasellarlo una volta per tutte. [Leggi di più…]
Lessico
La Casta come inamovibilità
Si sente spesso parlare di casta e quasi sempre ci si riferisce, col termine, a una classe dirigente cinica e affarista. Sarebbe opportuno, tuttavia, essere più precisi e definire chiaramente che cosa rende la casta tale. A mio avviso, chi dice casta dice, sostanzialmente, inamovibilità: il privilegio saliente di quanti ne fanno parte è l’impunità, l’esonero dal pagare per gli errori commessi. Nel nostro paese questo vale per tutti i detentori del potere – politico, economico, intellettuale, religioso etc. Se uno firma disinvoltamente un manifesto in cui il commissario Calabresi viene additato come un assassino, nel peggiore dei casi il gesto viene considerato un’imperdonabile leggerezza. [Leggi di più…]
Populismo? No demagogia
Nel dibattito pubblico corrente esiste un equivoco lessicale, che è anche un equivoco politico. In questi mesi forse la parola più usata nei commenti e nelle cronache è quella di ‘populismo’. Di solito la qualifica di populista è riferita a ciascuno dei due partiti attualmente al governo o alla loro azione. Credo si tratti di una definizione sbagliata. Populismo è un termine scivoloso che non rimanda a una definita fenomenologia politica, ma può investire situazioni molto diverse e inassimilabili tra di loro. Basti pensare alla distanza che corre tra il populismo statunitense ottocentesco e il populismo sudamericano del ventesimo secolo. In sostanza, parlare di populismo non chiarisce le idee, ma evoca una mescolanza di situazioni e fenomeni diversi. Per definire l’azione dei due partiti di governo penso sia più appropriato adoperare un’altra parola, che appartiene da sempre al lessico politico e definisce un preciso tipo di azione pubblica: demagogia. [Leggi di più…]
È corretto parlare di «democrazia illiberale»?
Con sempre maggiore frequenza, all’interno del dibattito sui mutamenti della democrazia, vengono indicate come «democrazie illiberali» quei paesi che, più o meno gradualmente, minacciano alcuni fondamentali principi che concretizzano l’ideale democratico. Con un’accezione solo in parte differente, questa espressione veniva utilizzata dagli studiosi dei regimi politici già oltre vent’anni fa, alla metà degli anni Novanta, per indicare proprio quei paesi dove il processo di democratizzazione faticava a imporsi o dove, invece, era sul punto di fallire. Il contesto mondiale, allora, era molto differente dall’attuale. Le aspettative verso una «globalizzazione della democrazia», specialmente dopo la caduta del muro di Berlino, erano molto alte. Oggi, invece, il quadro sembra essersi capovolto. I segnali di disaffezione verso la pratica democratica sono conclamati (per alcuni addirittura irreversibili) e, pertanto, sembra farsi strada una forma, per così dire, light di democrazia, nella quale gli organi indipendenti non sono più tali perché legati a doppio filo con l’esecutivo, le minoranze non sono riconosciute e, in taluni casi, persino perseguitate, i capi di governo non mostrano imbarazzo nell’utilizzare metodi dispotici, specialmente se scelti attraverso elezioni che in realtà somigliano molto a plebisciti (e non più a libere e regolari competizioni): in pratica, sta emergendo una forma di governo che mantiene in parte alcuni caratteri democratici, ma che rinuncia ai presupposti liberali, appunto una «democrazia illiberale». [Leggi di più…]
Giustizia penale internazionale
- Come procedere affinché le controversie internazionali non siano più decise con le armi, ma affidate, e risolte da, un tribunale internazionale permanente? Osservava il 15 novembre 2016 Francesco D’Agostino in uno dei primi post di questo forum, che l’Occidente «non vuole sentir parlare di guerra, anche quando la fa»; e preferisce interpretare «le violenze che continuano a colpire in modo particolare la cristianità orientale e africana come un fenomeno di criminalità comune, da fronteggiare più col codice penale e con azioni di polizia internazionale che con pratiche politiche». Ma pensando alle tensioni di questi mesi, soprattutto alle tensioni tra Corea del Nord e Stati Uniti, sembra opportuno continuare a chiedersi se non sia possibile prevenire la guerra con lo strumento del diritto, questione affrontata in un recente volume da Daniele Archibugi e Alice Pease (Delitto e castigo nella società globale, Castelvecchi, Roma 2017).
- In effetti, nell’ultimo quarto di secolo è emerso un nuovo sistema di giustizia penale. Abbiamo visto giudici nazionali sempre più audaci nel perseguire reati commessi altrove, abbiamo visto l’ONU istituire specifici tribunali internazionali e soprattutto abbiamo visto creare a Roma, con una cerimonia in Campidoglio il 17 luglio 1998, la Corte Penale Internazionale (CPI), costituita oggi da 123 Stati (su 193 Stati membri dell’ONU, senza però l’adesione di Cina, India, Russia e Stati Uniti), la cui giurisdizione è internazionale, appunto, nel senso che può processare individui responsabili di crimini di guerra, genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di aggressione commessi sul territorio (secondo l’art. 5, par. 1 dello Statuto di Roma del 1 luglio 2002).
- Ricordiamo il processo di Norimberga e poi i processi a Augusto Pinochet, Slobodan Milošević, Radovan Karadžić e Saddam Hussein e chiediamoci francamente se siano stati l’avvio di una oggi tanto acclamata nuova giustizia globale o se siano stati invece, e ben più prosaicamente, l’espressione della volontà dei più potenti di processare i propri nemici. Questione che Archibugi e Pease ripensano a fondo, proponendo di recidere il cordone ombelicale che lega le corti di giustizia internazionali agli Stati e alle organizzazioni che le hanno istituite. Di fatto, oggi «la giurisdizione universale è esercitata da magistrature statali, e i tribunali internazionale sono il risultato di complesse negoziazioni intergovernative». A tal fine, occorre predisporre un tessuto autonomo di norme e procedure sulle quali operare, nella prospettiva autenticamente cosmopolita tracciata dal progetto kantiano per la pace perpetua, un tessuto che si ponga come condizione di possibilità per il futuro di una giustizia penale internazionale che sottragga agli Stati il «potere monocratico di giudicare e punire».
- Concludono Archibugi e Pease: la società civile «ha un ruolo cruciale nel chiedere un progetto di giustizia cosmopolita. Uniamo le forze, pretendiamo che i giudici non vengano scelti dai governi, ma da una internazionale dei giudici. E non dimentichiamo la lezione di Mandela: la giustizia non solo punisce, ma riconcilia». Parole forti, queste, che però aprono una via da percorrere nel ventunesimo secolo, una via, ripetiamolo, che è stata aperta da Immanuel Kant.
Lobby
Se c’è una parola tra le più abusate, maltrattate e indefinite nel dibattito pubblico italiano, quella è certamente lobby, con tutti i sostantivi o aggettivi ad essa connessi (lobbismo, lobbying, lobbista, lobbistico ecc.). In Italia, è un termine connotato negativamente, che rimanda alle attività di qualche eminenza grigia che frequenta i palazzi del potere, dei faccendieri abituati a bazzicare nel «sottobosco» della politica (il sottogoverno), addirittura dei corruttori di professione interessati a manipolare o inquinare il regolare procedimento decisionale. Tutte le volte che una lobby non viene chiaramente identificata o nominata, finisce poi automaticamente nella categoria onnicomprensiva di «poteri forti»: una scatola concettuale dove si trova dentro di tutto, riposto alla rinfusa e senza ordine. Dietro ai «poteri forti», che esistono e vanno precisamente individuati, si nasconde spesso il tentativo retorico dei politici di camuffare la propria incompetenza o incapacità decisionale oppure la pigrizia di giornalisti che preferiscono titoli roboanti a indagini minuziose sulle attività dei gruppi economici, politici, sociali che caratterizzano il funzionamento di qualsiasi sistema politico democratico.
Il termine lobby ha tante radici, tutte ugualmente utili per illuminare le diverse sfaccettature di questo fenomeno. Per gli americani, la lobby è la sala d’ingresso degli alberghi, quel luogo «aperto» nel quale gli ospiti possono ricevere gli invitati esterni. Per gli inglesi, lobby era anche la grande anticamera nella House of Commons dove i parlamentari erano soliti sostare per prendere contatti e interagire con i vari portatori di interessi. Risalendo ancora più indietro, i latini definivano lobia quell’insieme di corridoi, logge o loggiati tipici dei monasteri medievali, dove era possibile intrattenersi per scambiarsi opinioni o idee prima di rientrare dentro i «palazzi». In tutte queste tre versioni, l’origine del lobbying rimanda a luoghi aperti o comunque pubblici, a trattative o discussioni che si fanno en plain air, non troppo lontani da sguardi e orecchi indiscreti. Solo di recente al termine lobby è stato appiccicato un alone di mistero e segretezza, che lo rende assolutamente «telegenico», soprattutto per alcuni grandi registi di Hollywood, ma che ha finito per renderlo indistinguibile da altri fenomeni (corruzione, manipolazione, complotto, imbroglio ecc.) con cui ha poco o nulla da spartire.
Per ridare dignità e utilità a questo termine, è importante (ri)definirlo con precisione. Proviamo così: sono lobby tutte quelle organizzazioni che mirano a influenzare legalmente, sia a monte (individuazione delle tematiche) che a valle (contenuto delle decisioni), il processo decisionale all’interno di un sistema politico. In questo modo, è possibile tenere separate le attività illecite di influenza sui decisori politici da quelle lecite, tra cui rientrano quelle tipiche del lobbying. Inoltre, una simile definizione consente di definire il lobbying come un processo a più stadi, che non si esaurisce nel drafting legislativo, ma include anche tutte le operazioni finalizzate a individuare le tematiche che (non) entreranno effettivamente nell’agenda della politica. Per questo il lobbying è, prima di tutto, gestione/creazione organizzata di informazioni rilevanti per i decisori pubblici e per la propria associazione o gruppo.
Solo dopo avere chiaramente definito le caratteristiche e l’ambito d’azione del lobbying, sarà possibile – come avviene in numerosi paesi europei (e nella stessa UE) – adoperarsi per regolamentare le loro modalità di influenza e i relativi rapporti con le assemblee legislative, i rappresentanti governativi e le strutture burocratiche. Consapevoli, però, che non basteranno albi o registri di lobbisti per controllare o limitare i canali di influenza dei gruppi di interesse sulla classe politica, né tanto meno per evitare potenziali conflitti di interessi oppure bloccare le troppe «porte girevoli» che si spalancano di fronte a ex politici in cerca di nuova collocazione.
Referendum – Sì?, NO: suonare i suonatori
Con le elezioni il popolo sceglie. Con l’iniziativa legislativa il popolo propone. Con la revoca il popolo scalza. Con il referendum il popolo decide. Scegliere i rappresentanti, mai, nelle democrazie parlamentari, i governanti; redigere un disegno di legge da sottoporre al Parlamento; mandare a casa e sostituire i rappresentanti sono tutti importanti poteri nelle mani del popolo. Però, il referendum è il più immediato, più incisivo, ma anche più controverso di questi poteri. Infatti, sono sempre stati molti coloro che sostengono che i referendum mal si conciliano con le democrazie parlamentari, nelle quali il potere di fare e disfare le leggi deve rimanere nelle mani e nelle menti dei rappresentanti eletti, poiché la maggioranza degli elettori, la maggioranza del tempo e per la maggioranza delle scelte, anche referendarie, non è abbastanza interessata, non è abbastanza informata, non è abbastanza partecipante.