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Serve una nuova Bretton Woods

27 Marzo 2017 di Enrico Cisnetto 6 commenti

Molto più che i danni procurati, e ce ne sono, il processo di globalizzazione, iniziato con gli anni Novanta, ha creato benefici diffusi e consistenti. Solo che questi sono stati tutt’altro che uniformi. Solo un approccio ideologico e nostalgico, per non dire egoista, può ignorare l’irriducibile ‘merito’ della globalizzazione di aver dimezzato l’incidenza della fame sulla popolazione globale, scesa dal 40% al 18% sul totale degli abitanti del pianeta. Per esempio, in 20 anni la sola produzione di cereali è triplicata, aumentando l’apporto calorico pro capite del 38%, su un bacino di oltre due miliardi di persone, quasi un mondo intero. Basti pensare che nel Secondo Dopoguerra il 55% del pianeta viveva con meno di un dollaro al giorno, mentre oggi siamo scesi sotto al 20%. E, stando ai calcoli dell’Economist, dal 1995 ad oggi – periodo comprensivo, dunque, della recessione globale – l’apertura dei mercati ha migliorato le condizioni di vita di 900 milioni di persone. Ma questi vantaggi si sono concentrati in modo costante e omogeneo solo in alcune zone del mondo. Non a caso, se in passato l’aspettativa di vita nel subcontinente indiano era di 27 anni, attualmente è di 63, la stessa dell’Europa della prima metà del Ventesimo secolo.

In effetti, specie dopo il crack finanziario del 2008 e la conseguente recessione, in Occidente la globalizzazione – tra fantasie di ‘decrescita felice’, reflussi protezionistico-nazionalistici e apologia del ‘local’ – sembra essere diventata un nemico da abbattere. Se negli anni Ottanta e Novanta gli effetti positivi cavalcati soprattutto dal mondo della finanza si sono riflessi anche sulla maggioranza della popolazione, successivamente la concentrazione della ricchezza ha assunto toni eccessivi, con un contestuale impoverimento – non solo economico – del ceto medio. I dati ci dicono che, da sole, ottocento imprese realizzano la metà del pil mondiale e che Piazza Affari capitalizza meno dell’1% di Amazon, mentre 62 individui detengono la stessa ricchezza della metà più povera della popolazione. Un rapporto sempre più piramidale, visto che se nel 2010 le persone ‘all’apice’ erano 388, nel 2020 saranno solo in 11, con un incremento del patrimonio stimato in 542 miliardi di dollari. [Per saperne di più…]

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Trump alla fine della globalizzazione? Se a rompere le regole è chi le ha dettate

23 Marzo 2017 di Giovanni Ferri Lascia un commento

La presidenza Trump non è il primo ma è comunque un grosso ostacolo alla globalizzazione. Per capirne l’entità, conviene fare un passo indietro e acquisire prospettiva.

La globalizzazione nasce nella mente dei governanti americani alla fine degli anni ’60. Nixon si rende conto che gli USA non ce la fanno più a sostenere l’onere del Gold Exchange Standard, che dissangua le riserve auree di Fort Knox, e a sopportare l’agguerrita concorrenza dei prodotti europei. Decide di cambiare le regole del gioco: abbandona la convertibilità del dollaro in oro e sdogana la Cina.

La Cina diverrà il principale coprotagonista della globalizzazione, mentre l’Europa via via marginalizzata finge di unirsi. Dollari disancorati dall’oro inondano il mondo; ne son pieni i forzieri cinesi.

Mentre gli USA si trasformano da grandi creditori al più grande paese debitore della storia, la globalizzazione prorompe finanziata a credito dal resto del mondo. Genera enormi profitti per chi possiede il capitale. Invece, quando non calano, i salari crescono comunque poco. La disuguaglianza negli USA torna ai massimi di inizio ‘900. La classe media soffre e, per non comprimere i livelli di consumo, si indebita pesantemente con la compiacenza di un sistema finanziario che si inventa strumenti complessi.

Scoppia perciò la crisi del 2008. L’economia viene fatta ripartire con la droga monetaria (QE) e fiscale (vertiginosi deficit pubblici) ma si accentua ancora la sofferenza della classe media americana. Cresce la sua rabbia. La miscela è pronta.

Un tycoon proprietario di grandi attività in industrie in declino (immobiliare e media tradizionali), noto per le bravate da macho e non come capitano d’industria, si erge a paladino contro il male, che ovviamente sta al di là dei confini nazionali. Sequestra il partito repubblicano. Propone ricette semplici, poco conta se siano praticabili. Ammalia i rabbiosi. Vince la Casa Bianca.

È verosimile che Trump dei muri che ha proposto ne costruirà pochi, che ammansisca toni e obiettivi (anche se ciò non traspare dai primi atti). Ma già il fatto di aver sdoganato la diffidenza planetaria, in un modo o nell’altro, scatenerà pulsioni tra gli USA e l’estero. La Brexit sarà stato solo un assaggio. [Per saperne di più…]

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«La calunnia è un venticello». A proposito di post-verità

6 Marzo 2017 di Pierluigi Valenza Lascia un commento

La scelta del termine «post-truth», in italiano «post-verità», come parola dell’anno da parte dell’Oxford Dictionary avrebbe potuto entrare a far parte di quelle curiosità dicembrine, quando si stilano bilanci e classifiche di un anno che se ne sta andando, qualcosa quindi di cui si discute nelle pagine culturali o in qualche editoriale erudito, insomma da lasciarsi rapidamente alle spalle a fronte di questioni più serie. Non è invece andata così, per fortuna.

Intanto ricordiamo il preciso significato del termine e la ragione della sua indicazione come parola dell’anno. Il significato: «post-truth» è un’aggettivazione definita come «relativa o denotante circostanze nelle quali i fatti oggettivi sono meno influenti nel formare l’opinione pubblica rispetto alle emozioni e alle credenze personali» (https://en.oxforddictionaries.com/word-of-the-year/word-of-the-year-2016). Le ragioni dell’indicazione come parola dell’anno sono da riportare alla crescita esponenziale del suo uso (in ambito anglofono, secondo il sito dell’Accademia della Crusca [http://www.accademiadellacrusca.it/it/lingua-italiana/consulenza-linguistica/domande-risposte/viviamo-nellepoca-post-verit], del 2000% rispetto al 2015) legato soprattutto a due eventi politici dirompenti quali la Brexit e l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti. Nella campagna pro-Brexit e nella campagna elettorale americana si è fatto ampio uso di notizie facilmente smentibili e che tuttavia sono risultate efficaci nell’orientare l’opinione pubblica: Annamaria Testa in un suo intervento su Internazionale on-line (http://www.internazionale.it/opinione/annamaria-testa/2016/11/22/post-verita-facebook-trump) cita i fact-checker del Washington Post, ovvero il grado di falsità di notizie fatte circolare misurato in Pinocchi, ricordando le ben 59 affermazioni da quattro Pinocchi di cui si è giovato Donald Trump nella sua campagna, con esempi del tipo: «La disoccupazione negli Usa è al 49 per cento» – in realtà è al 5 per cento. [Per saperne di più…]

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Dall’opinione pubblica alla post-verità: la dialettica del post-moderno

27 Febbraio 2017 di Roberto Mordacci 1 commento

Nell’edizione del 1781, l’Oxford Dictionary registra per la prima volta l’ingresso nel linguaggio comune dell’espressione public opinion. Con essa ci si riferisce, come negli analoghi contemporanei opinion publique francese e öffentliche Meinung tedesco, all’opinione di un pubblico colto e criticamente avvertito, pronto a far valere il proprio peso nella discussione sulle scelte dei governanti e sui problemi sociali emergenti. Come scrive Edmund Burke in quegli anni, «In un paese libero, ogni uomo pensa di avere interesse a tutte le questioni pubbliche, di avere il diritto di formarsi e manifestare un’opinione su di esse. Egli le filtra, le esamina e le discute. È curioso, appassionato, attento e geloso; e, facendo di queste questioni il soggetto quotidiano del loro pensiero e delle loro scoperte, molti raggiungono una tollerabile conoscenza di sé e alcuni ne raggiungono una ragguardevole» (Burke’s Politics , New York 1949, p. 106).

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La fuoruscita costituzionale dall’Italicum

13 Febbraio 2017 di Gianfranco Pasquino Lascia un commento

Le motivazioni della sentenza della Corte Costituzionale n.35/2017 non soltanto confermano l’esistenza di incostituzionalità per alcune clausole dell’Italicum, ma offrono alcune importanti indicazioni su cui riflettere anche per valutare retrospettivamente e prospettivamente i tanti, troppi strafalcioni dei sostenitori dell’Italicum.

Primo, più volte la Corte scrive a chiarissime lettere che l’Italicum è una legge elettorale proporzionale. «La logica prevalente della legge [è] fondata su una formula di riparto proporzionale dei seggi». Questo dovrebbe bastare a zittire tutti coloro che straparlano di un ritorno alla proporzionale. Di tipi di leggi elettorali proporzionali ne esistono moltissimi, e la flessibilità/adattabilità è un pregio dei sistemi proporzionali.  L’Italicum, come il suo babbo, il Porcellum, è un sistema proporzionale stravolto dalle modalità di assegnazione di un premio di maggioranza eccessivo. Non stiamo tornando «alla proporzionale». La Corte invita a scrivere una legge elettorale decente che, qualora sia proporzionale, deve assomigliare il meno possibile all’Italicum.

Secondo, l’Italicum non era neppure lontano parente della legge usata per eleggere sindaci e consigli comunali. La pessima espressione «sindaco d’Italia» non è solo fuorviante. È anche, semplicemente, sbagliata. Al proposito, la Corte merita una citazione verbatim. Sottolineata la «logica distinta» che ispira la legge per «l’elezione di una carica monocratica, quale è il sindaco», la Corte sottolinea che «ciò che più conta è che quel sistema si colloca all’interno di un assetto istituzionale caratterizzato dall’elezione diretta del titolare del potere esecutivo locale, quindi ben diverso dalla forma di governo parlamentare prevista dalla Costituzione a livello nazionale». Punto, definitivo.

Terzo, l’obbligo, se le cose rimangono come sono riguardo alle candidature multiple, non gradite, ma neppure ritenute incostituzionali dalla Corte, l’individuazione attraverso il sorteggio della circoscrizione della quale la pluricandidata e plurieletta (ricorro al fastidioso politically correct, poi le donne faranno i loro conti) diventerà rappresentante è intesa a togliere dalle mani dei capipartito/capicorrente che già hanno sparato i loro colpi paracadutando i loro beniamini, un’arma: quella di scegliere chi lasciare fuori fra coloro che sono i primi non eletti dietro la pluriparacadutata. Peraltro, la Corte non impone il sorteggio se il legislatore saprà offrire una soluzione migliore, ad esempio, l’elezione nella circoscrizione in cui la pluricandidata è risultata più votata.

Infine – ma questo discorso non sarà di facile comprensione per tutti coloro che si sono riempiti la bocca con la parola governabilità per loro assicurabile soltanto da un cospicuo premio di maggioranza – la Corte sottolinea un notevole numero di volte la necessità di dare rappresentanza adeguata all’elettorato. In un certo, forte, senso, rappresentatività batte governabilità, con il punteggio, diciamo, 5 a 1, poiché «ad un’assemblea elettiva nel contesto di un regime parlamentare» spetta, anzitutto e soprattutto, garantire buona rappresentanza. Con questi criteri nessuno dei corifei politici e accademici del boschianrenzismo supera l’esame. Con questi criteri merita valutare da adesso in poi tutte le proposte. Fiat lux.

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L’incostituzionalità dell’Italicum

6 Febbraio 2017 di Andrea Pertici Lascia un commento

L’Italicum è incostituzionale: lo ha dichiarato la Consulta con sentenza 25 gennaio 2017.

In attesa che vengano depositate le motivazioni, il comunicato stampa precisa che i profili di incostituzionalità sono due: 1) l’attribuzione del premio di maggioranza anche a seguito di ballottaggio, a chi non raggiunga, al primo turno, la soglia minima del 40%; 2) la possibilità per i capilista bloccati che si possono candidare in più collegi (fino a dieci) di scegliere del tutto arbitrariamente uno tra quelli in cui sono risultati eletti, selezionando così anche quali altri compagni di partito far accedere alla Camera.

Si tratta di una decisione attesa, in base alla sent. n. 1/2014, in cui si rilevava l’incostituzionalità del Porcellum laddove prevedeva l’attribuzione di seggi in più a chi  avesse ottenuto anche un solo voto in più del secondo classificato, proprio come nell’Italicum avveniva a seguito del ballottaggio. Questo, in effetti – diceva la Corte – determina un’illimitata compressione della rappresentatività, con un totale «rovesciamento della formula elettorale prescelta», cioè il proporzionale, posto alla base del Porcellum e dell’Italicum, che ingenera nell’elettore la legittima aspettativa che non si determini uno squilibrio nel peso del voto in uscita. Il premio di maggioranza non trasforma – a differenza di quanto talvolta si sente dire con approssimazione – il sistema in maggioritario, ma semplicemente innesta sul proporzionale un’alterazione per realizzare la stabilità di governo (considerato che quest’ultimo, in una forma parlamentare, deve poi ottenere la fiducia in Parlamento). Quest’ultima, però – prosegue la sentenza – è un obiettivo costituzionale che deve essere garantito nel rispetto del vincolo del minor sacrificio possibile per la rappresentanza. E questo ovviamente non avviene con un premio, che, ad esempio, nelle elezioni politiche del 2013, ha portato, con il Porcellum, al 55% dei seggi una coalizione che aveva ottenuto circa il 29% dei voti, mentre – se ci fosse stato l’Italicum – avrebbe portato al 55% dei seggi quella delle due liste che avevano ottenuto circa il 25% dei voti al primo turno che al ballottaggio ne avesse preso uno più dell’altra. [Per saperne di più…]

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La via maestra di una nuova legge elettorale per Camera e Senato

2 Febbraio 2017 di Federico Fornaro 1 commento

Sono stato uno dei ventiquattro senatori della minoranza del Partito Democratico che non partecipò al voto sull’Italicum, mentre alla Camera dieci componenti, sempre della minoranza dem, della Commissione Affari Costituzionali furono sostituiti, una quarantina di deputati del Pd votarono contro (o non risposero alla chiamata) la fiducia posta dal governo sulla legge elettorale e il capogruppo Roberto Speranza si dimise da capogruppo.

A due anni di distanza, la Corte Costituzionale ha confermato la fondatezza di molti nostri rilievi a cominciare dal ballottaggio e, se mi è consentito, anche la giustezza della difesa intransigente dell’idea che, a maggior ragione dopo la bocciatura del «Porcellum», si dovesse ricercare un corretto equilibrio tra le esigenze della rappresentanza e quelle relative alla stabilità dei governi.

In una visione sistemica, e al netto quindi di chi ha contrastato con ragioni dimostratesi fondate l’iniziativa del Governo, per le forze politiche e per il Parlamento la pronuncia della Corte Costituzionale sull’Italicum rappresenta, però, una sconfitta tanto netta quanto amara. [Per saperne di più…]

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