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Una replica a Zamagni

21 Novembre 2016 di Dino Cofrancesco 2 commenti

piccola-piccola-schngenNon sono un economista e, pertanto, non ho le competenze necessarie per replicare a un discorso, come quello di Stefano Zamagni, che mi lascia molto perplesso come studioso di storia e lettore dei classici del pensiero politico occidentale.

Innanzitutto mi ha stupito una citazione dello jus migrandi—sancito dal Trattato di Augusta del 1555—che sembra quasi la prefigurazione del ‘diritto cosmopolitico’ . In realtà, la Pace di Augusta segna l’ingresso dello stato nazionale—al quale non sono mai andate le simpatie dei  cattolici progressisti—in un’arena politica prima dominata da istituzioni sovranazionali, come la Chiesa e l’Impero.
Lo jus migrandi sanciva semplicemente l’obbligo fatto ai sudditi di seguire la religione del principe (cuius regio, eius religio)  e il relativo diritto di emigrare in un altro principato  la cui religione di stato coincidesse con la propria. Forse Zamagni pensava all’impossibilità,  per i pochi irakeni e siriani di religione cristiana, di diventare cittadini della Grecia o della Spagna ma, francamente, tale impossibilità non mi sembra oggi il punto più drammatico all’o.d.g.

Neppure mi convince  il quadro apocalittico di un cambiamento climatico che creerà i ‘rifugiati ecologici’ e, inoltre, trovo contraddittorio parlare,  da un lato,  degli < espulsi dal diffondersi di pratiche di land grabbing (accaparramento delle terre), cioè di sottrazione di terre fertili ai loro abitanti da parte di governi stranieri e di grandi multinazionali, soprattutto in Africa subsahariana> e, dall’altro, delle <rimesse degli emigrati> che  renderebbero  l’emigrazione < il modo più rapido e meno costoso per entrare in possesso delle abilità e delle conoscenze richieste dai nuovi paradigmi tecnologici>. Ma in un subcontinente devastato  da un neo-colonialismo predatorio come potrebbero le rimesse degli emigranti contribuire al decollo dei paesi di provenienza?

“Gli immigrati ci tolgono ricchezza? ”,si chiede Zamagni. <In verità con i cinque miliardi di differenza tra i contributi versati dagli immigrati e i contributi percepiti da costoro nel 2015, l’INPS paga le pensioni di 600 mila italiani. Sempre nel 2015, 8,7% è stato il contributo al PIL del lavoro degli immigrati>. Abbiamo bisogno degli emigranti, d’accordo, ma di quelli qualificati non di  quelli da qualificare e da mantenere, a spese dello Stato ovvero dei contribuenti e che creano problemi di ordine pubblico anche nei comuni rossi.

”I migranti, oggi, sono il cavallo di Troia del terrorismo in Europa?” incalza ancora Zamagni. No, ribatte,< la realtà  è che la quasi totalità delle persone che scappano dai loro paesi d’origine, scappa dal terrore e dalle guerre”. Qui ,debbo essere sincero, mi sembra che il buonismo  coincida con l’irresponsabilità. Sappiamo tutti che sui gommoni non s’imbarcano i terroristi (anche se non ne sarei troppo sicuro) ma il  punto è questo o un altro ben più drammatico ed ‘epocale’ ovvero il clash of civilizations di cui parlava uno dei massimi scienziati politici contemporanei, Samuel P. Huntington? Il rischio che incombe sull’omogeneità culturale delle nostre comunità politiche si risolve finanziando incontri e master universitari sulla tolleranza e sul (presunto) reciproco arricchimento delle culture? La ‘crisi dello stato nazionale’(un processo in Italia iniziato sessanta anni fa) va salutata come inevitabile e alla politica—che di quello stato era il terreno  privilegiato—va sostituito il diritto? Resta difficile capire come un progetto ambizioso come il Migration Compact possa realizzarsi senza una nuova comunità politica—oggi impensabile– forte, coesa, dotata di un esercito e di una polizia alle dipendenze di un unico e responsabile potere esecutivo, ma forse i miei sono pregiudizi da vecchio lettore di Machiavelli e di Pareto.

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E’ ora di un migration compact

15 Novembre 2016 di Stefano Zamagni 1 commento

Il fenomeno migratorio è andato assumendo, nel corso dell’ultimo quarto di secolo, caratteristiche nuove.

La prima concerne il paradosso sconcertante per cui la globalizzazione economica, mentre accelera e magnifica la libertà di trasferimento di beni e di capitali, ostacola i movimenti delle persone mettendo a repentaglio la fruizione un diritto fondamentale (lo ius emigrandi venne sancito dal Trattato di Augusta nel 1555).

La seconda è rappresentata dal fatto che i flussi migratori sono destinati ad aumentare per ragioni strutturali diverse da quelle del passato. Sono le guerre civili e la violenza politica a costituire la prima causa delle partenze forzate. E già sappiamo che nei prossimi anni gli effetti del cambiamento climatico faranno emergere una nuova categoria di migranti, i cosiddetti “rifugiati ecologici” – espressione per primo coniata da Lester Brown nel 1976.
Ad essi, andranno ad aggiungersi tutti coloro che verranno espulsi dal diffondersi di pratiche di land grabbing (accaparramento delle terre), cioè di sottrazione di terre fertili ai loro abitanti da parte di governi stranieri e di grandi multinazionali, soprattutto in Africa subsahariana, per soddisfare la domanda crescente di prodotti agricoli e per produrre energia (cfr. il Rapporto del Parlamento Europeo Addressing the Human Rights Impacts of Land Grabbing, 2014).

Terzo punto, le migrazioni odierne smentiscono la tesi, di moda fino agli anni ’80, secondo cui lo strumento più efficace per allentare la pressione migratoria sarebbe quello di accrescere le potenzialità occupazionali nei paesi in via di sviluppo. In tali paesi l’emigrazione, anziché rappresentare un’alternativa al processo di sviluppo, costituisce un mezzo per avviarlo. E ciò sia perché le rimesse degli emigrati consentono di far giungere risorse finanziarie direttamente nelle mani dei potenziali utilizzatori senza passare per l’intermediazione di poco affidabili agenzie pubbliche sia perché l’emigrazione costituisce il modo più rapido e meno costoso per entrare in possesso delle abilità e delle conoscenze richieste dai nuovi paradigmi tecnologici.

Di fronte ad uno scenario del genere indigna l’ipocrisia e l’inadeguatezza delle politiche migratorie di una regione come l’UE, dove non si va oltre l’adozione di pratiche meramente assistenzialistiche che valgono solo ad alimentare odi e chiusure immotivate. Consideriamo quel che interessate campagne mediatiche vanno diffondendo nel nostro paese. “I mussulmani ci invadono”, mentre meno di un terzo degli immigrati che giungono in Italia sono mussulmani. “Gli immigrati ci tolgono ricchezza”, ma in verità con i cinque miliardi di differenza tra i contributi versati dagli immigrati e i contributi percepiti da costoro nel 2015, l’INPS paga le pensioni di 600 mila italiani. Sempre nel 2015, 8,7% è stato il contributo al PIL del lavoro degli immigrati. “Rischiamo una catastrofe demografica”, ma è vero che nel 2015 l’Italia ha perso 180 mila italiani rimpiazzati da meno di 40 mila stranieri immigrati. “Gli immigrati ridurranno le nostre possibilità di crescita futura”, mentre è vero che con anziani in crescita e meno forza lavoro giovane si riducono le prospettive di sviluppo. Come emerge da un recente studio della Fondazione Moressa, con le frontiere chiuse, nel 2030 verranno persi trenta milioni di lavoratori in Europa, la quale oltre che vecchia diverrà più povera e improduttiva. ”I migranti, oggi, sono il cavallo di Troia del terrorismo in Europa”, ma la realtà è che la quasi totalità delle persone che scappano dai loro paesi d’origine, scappa dal terrore e dalle guerre.

Se veramente si vogliono scongiurare i rischi di pericolose regressioni sia sul fronte etico sia su quello economico è necessario cambiare con urgenza rotta: le politiche migratorie non possono essere fissate a livello nazionale. Nessun paese, per quanto competente sia la sua classe dirigente e per quanto illuminato sia il suo ceto politico, può pensare di affrontare da solo la questione migratoria senza generare effetti perversi e senza produrre conseguenze negative a carico degli altri paesi. Occorre un Migration Compact, che valga ad evitare che la cosiddetta “competizione per la deterrenza” fra paesi vicini in materia di welfare conduca ad un impoverimento generalizzato. Il paese “troppo” generoso nella erogazione dei servizi sociali attirerebbe a sé gli immigrati fino ad arrivare alla non sostenibilità finanziaria; d’altro canto, il paese troppo poco generoso innescherebbe una corsa al ribasso che finirebbe con il danneggiare anche gli autoctoni. E’ veramente paradossale – per tacer d’altro – che a tutt’oggi l’UE non sia ancora riuscita a definire una politica migratoria comune, la quale contempli, in particolare, l’istituzione di un Fondo Europeo per le Migrazioni gestito da un’autorità indipendente sul modello di quanto è stato fatto per la BCE.

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