Conosco Francesco D’Agostino da parecchi anni, oramai. E mi sono sempre sentito onorato dalla sua cara amicizia, anche se non di rado mi sono trovato su posizioni diverse dalle sue, e anche opposte, in tema di etica pubblica. Giorni fa Francesco D’Agostino ha pubblicato un importante editoriale su «Avvenire».
Le battute conclusive, devo confessare, mi hanno piacevolmente sorpreso. Alla fine del suo intervento, infatti, egli rimodula in modo molto significativo un punto di vista che aveva in passato coltivato con tenacia. Alludo a quella linea di etica pubblica, praticata da una certa parte della cattolicità italiana molto vezzeggiata da «Avvenire», che riteneva indispensabile «operare sul piano delle norme» (prendo qui a prestito parole di D’Agostino), cioè poi far approvare delle leggi che ratificassero, e quindi rendessero obbligatori per tutti i cittadini, i ‘valori’ propri del cattolicesimo italiano così come era rappresentato dalle ‘prese di posizione’ della CEI (per molti anni guidata dal card. Ruini, come è noto). Specie in fatto di etica delle relazioni legate all’esercizio della sessualità. D’Agostino ricorda le memorabili battaglie contro il divorzio e contro la legge sull’aborto (perdute, come si sa, da parte cattolica – quella, appunto, più sensibile alle direttive gerarchiche in materia). Fine altrettanto ingloriosa toccò poi alla legge sulla procreazione assistita, alla cui stesura D’Agostino non era stato estraneo (per quanto ne so). Anche questo viene da lui ricordato con molta intellettuale onestà.
Quel tipo di strategia non ha pagato. La cosa è fin troppo evidente. Bisogna cambiare registro, dice ora il mio amico. Ai tempi di Papa Francesco i cattolici devono non proporre ‘norme’, ma difendere (cioè poi testimoniare con la loro vita) ‘valori’. E poi si vedrà.
Se posso permettermi una battuta scherzosa (sicuramente Francesco me la permetterà), mi vien da esclamare: «Benvenuto nel club, amico mio!». Questa strategia è stata, infatti, da molti anni, quella praticata da tanti ‘cattolici democratici’ (intellettuali di professione o meno) che le nostre gerarchie ecclesiastiche hanno per lo più emarginato sulla stampa cattolica ufficiale, preferendo i ‘normatori’, e persino strizzando l’occhio ai cosiddetti ‘atei devoti’ (alla Giuliano Ferrara, tanto per intenderci): tutti chiamati alla battaglia per i cosiddetti ‘principi non negoziabili’.
Non voglio farmi le cose facili, comunque. Perciò desidererei, a scanso di equivoci, introdurre almeno una piccola ‘avvertenza’ di fronte a tanta piacevole notizia. L’avvertenza è poi questa.
Il mio amico Francesco vuole rinunciare all’apparato ‘normativo’ e vuole coltivare (giustamente) la testimonianza dei ‘valori’. Ok! Ma poi fa occhiolino nel suo dettato l’accenno a una qualche identità contenutistica tra ‘norme’ un tempo invocate e ‘valori’ ora testimoniati. Come dire: cambiamo la forma dell’imporre nella forma del proporre, ma quel che dobbiamo proporre è… quello stesso che volevamo imporre (senza di fatto riuscirci).
Forse non ho capito bene, ma se ho capito bene quel che ho capito, devo dire che la svolta del mio amico Francesco si è forse fermata a metà del guado. Perché allora dovremmo testimoniare che in una società civile e laica il divorzio va esecrato, la convivenza dei giovani (e non) va stigmatizzata come forma di concubinato, qualsiasi tipo di aborto va di principio proibito, le unioni civili vanno cancellate ecc. ecc.
È questo che Francesco vorrebbe ‘testimoniare’? Spero proprio di no. A me non pare che una linea di questo tipo, non più imposta per legge, ma proposta per testimonianza, registri l’impulso nuovo che Papa Francesco vuol dare alla cattolicità, e pure alla cattolicità italiana. E a me non pare che ‘testimoniare’ cose siffatte sia un contributo alla costruzione di una società civile come quella dei nostri tempi.
Non vorrei ora passare per un divorzista e, peggio, per un abortista. Tutti sappiamo che cose come il divorzio e l’aborto sono ‘ferite’. Vorrei piuttosto, in accordo con il magistero di Papa Francesco, essere tra quelli che si chinano sui feriti per aiutarli a guarire, e non per inchiodarli a una condanna. E soprattutto vorrei che in una società multietnica e multiculturale, come la nostra è oramai diventata, si guardasse anzitutto al ‘minimo comune denominatore’ della nostra convivenza. Che vuol dire – in termini forse più comprensibili: che ci si dedicasse – tutti – a proteggere anzitutto l’umano che ci è comune (in sede di etica pubblica), liberi poi i cittadini di praticare le forme eccedenti l’umano che ci è comune. Naturalmente, a patto che quest’ultimo sia dalle forme eccedenti sempre presupposto, e soprattutto sempre onorato. Difendendo ogni essere umano in ciò che gli è inalienabile, possiamo testimoniare, infatti, in prima battuta e nel modo migliore, pare a me, la fede cristiana agli occhi di tutti quelli che questa fede non hanno o credono di non avere. Agli occhi di tutti quelli che forse sono diventati maggioranza, a quanto si dice e si vede.
Francesco D'Agostino dice
Secondo Vigna, mi sarei fermato in mezzo al guado: auspicherei un passaggio dal normativo al valoriale, ma resterei fermo nel mantenere con indebita fermezza i contenuti materiali dell’etica pubblica cattolica. Di conseguenza, il passaggio, che io auspicherei, dall’ “imporre” al “proporre” non coglierebbe la vera necessità del nostro tempo, che non sarebbe quella di evangelizzare i non credenti, ma quella di difendere “l’umano che ci è comune”, lasciando poi liberi i cittadini di praticare, a loro arbitrio, “le forme eccedenti l’umano che [appunto] ci è comune”.
Ribadisco che l’esperienza dovrebbe averci ormai aperto gli occhi: ritengo assolutamente impossibile nella società postmoderna vincolare normativamente tutti i cittadini sui temi più laceranti dell’etica pubblica e quindi, ad es., proibire in assoluto l’aborto e la fecondazione assistita o imporre l’indissolubilità e l’eterosessualità del matrimonio. Ma questo non significa affatto rinunciare a sottolineare, pubblicamente, l’inconsistenza giuridica del matrimonio gay o la violenza obiettivamente implicita in tante esperienze di divorzio e di procreazione eterologa. Non con la coercizione giuridico-sociale si devono difendere i “valori” , ma con incessanti battaglie testimoniali contro la relativizzazione degli stili di vita. Queste battaglie, però, non devono trovare espressione in manifestazioni pubbliche (come le marce per la vita), in lanci di palloncini verso il cielo (come è stato fatto in occasione della morte del piccolo, sventurato Alfie) o in vibranti parole piene di sdegno morale verso i propri avversari, ma in nuove e severe forme di riflessione, di meditazione e di rielaborazione delle “ragioni” evangeliche. L’esortazione di S. Pietro (1 Pt 3.15), tanto cara a Papa Benedetto, non ci invita in prima battuta ad operare nel sociale, assumendo ruoli politici, ma ad operare nel “relazionale”. All’induista che, con la dolcezza che gli è propria, insistesse nello spiegarmi che nella ruota dell’esistenza bene e male di sovrappongono e si confondono (come fa il bramino Godbole con l’inglese Fielding, in “Passaggio in India” di Forster), dovremmo con infinita pazienza opporre l’irriducibile evidenza del male e l’assoluto dovere di ciascuno di noi di andare in soccorso attivo di chi soffre e che a volte non ha nemmeno la forza di chiedere aiuto. In molti casi nemmeno la testimonianza di una vita intera è in grado di scalfire le certezze e i pregiudizi di chi ci sta di fronte. Ma l’insegnamento del Vangelo si riduce solo e proprio a questo: comunicare un orizzonte di salvezza, non invocando l’aiuto del diritto e meno che mai della forza, ma affidandosi unicamente alla forza della Parola.
Carmelo Vigna dice
Caro Francesco,
ribadisco che sono d’accordo con te sulla necessità di una testimonianza dei valori, di contro a una imposizione normativa dei valori. Restavo e resto ancora un po’ perplesso su alcune tue allusioni: le tue esplicitazioni ultime mi trovano, comunque, più vicino al tuo punto di vista di quanto prima non supponessi.
Dare testimonianza, scrivi tu ora, “non significa affatto rinunciare a sottolineare, pubblicamente, l’inconsistenza giuridica del matrimonio gay o la violenza obiettivamente implicita in tante esperienze di divorzio e di procreazione eterologa”. E nuovamente sottolinei: “Non con la coercizione giuridico-sociale si devono difendere i “valori”, ma con incessanti battaglie testimoniali contro la relativizzazione degli stili di vita”. Queste battaglie poi tu intendi come “nuove e severe forme di riflessione, di meditazione e di rielaborazione delle ‘ragioni’ evangeliche” e non come piazzate o moralistiche condanne.
Ebbene, dopo queste tue precisazioni, le differenze tra i nostri due punti di vista si riducono, mi pare, solo a una diversa strategia di etica pubblica. Personalmente sono convinto, infatti, dell’opportunità di cominciare – nell’agorà – con “l’umano che ci è comune”, e non con la testimonianza immediata della parola evangelica. E non certo perché non sia convinto della verità dell’Evangelo – convinzione che ci accomuna entrambi come nessuna altra -, ma perché cominciare da lì in questioni di “natura umana”, per lo più ci impedisce, pare a me, di essere dall’interlocutore non credente effettivamente ascoltati.
E poi. Anche io mi rifugio – lo dico ad hominem – nella notazione petrina che giustamente tu citi e che pure a me è carissima. E proprio da lì ricavo l’esortazione a rispondere… a chi domanda (della speranza che è in noi). La mia semplice istanza (petrina!) di etica pubblica (dialogica) allora diventa specialmente oggi – in una condizione multiculturale – questa: si attenda prima la domanda e poi si dia la risposta. E sono convinto del fatto che la domanda del nostro interlocutore non credente nel Vangelo diventa più facile, più libera e più vera, se ci prendiamo cura, appunto, dell’umano che ci è comune. Cioè dell’interlocutore.
Subito confesso – in chiusura – d’avere spesso l’impressione che in tanti cristiani credenti prevalga la tentazione di rovesciare quest’ordine. Se tu su quest’ordine, da me accennato, sei invece d’accordo, si può finire qui. Anche per non cadere, almeno da parte mia, nel “narcisismo delle piccole differenze”.