In margine alla discussione sul ruolo ormai praticamente estinto – come suggerito da Adriano Sofri – dei cattolici in politica, su cui Francesco D’Agostino ha recentemente scritto per «Avvenire», e a cui hanno risposto Andrea Bixio e Carmelo Vigna, vorrei aggiungere qualche considerazione. D’Agostino, constatato il sostanziale fallimento della strategia normativistica, nei suoi tentativi di veicolare le convinzioni etiche fondamentali del cristianesimo nell’apparato normativo statale, propone un solido «ritorno ai valori» a testimonianza delle convinzioni di fede. Vigna, apprezzando quello che giudica un giusto mutamento di strategia di D’Agostino, teme tuttavia che la sua proposta conservi ancora un carattere troppo militante, preferendo piuttosto, sulle orme di papa Francesco, l’ormai famoso chinarsi sulle ferite presenti nell’ospedale da campo dell’umanità. Bixio, infine, constatando la perenne discrepanza tra messaggio di Cristo, realtà storica nella sua mutevolezza e dovere dell’istituzione ecclesiastica di adattamento a questa, mette in guardia sia da un eccesso di razionalismo a dimostrazione della validità del messaggio cristiano, sia di un eccesso di conformismo rispetto al dettato della storia, rimarcando lo splendore dell’umanesimo cristiano.
La questione del ruolo dei cattolici non tanto in politica, quanto sulla scena pubblica è tanto complessa quanto di lunga data, cosicché vi è sempre da diffidare delle opzioni radicali, ma non c’è dubbio che esiga comunque costanti riflessioni. Senza volerne proporre di mie personali –peraltro già espresse sulle pagine di «Avvenire» –, vorrei fare presente che due autorevoli personaggi – l’uno filosofo di incontestato spessore, l’altro uno dei pochi politici oggi emergenti dotato di una qualche statura – hanno espresso, da laici qual sono, posizioni che possono gettare luce su quale sia effettivamente il ruolo dei cattolici sulla scena pubblica.
Il primo, Habermas, ha in più occasioni ribadito l’utilità e l’opportunità per la filosofia e la politica di avere «una disponibilità ad apprendere» dalle tradizioni religiose, che non rappresentano soltanto «un semplice dato sociale», ma che pongono una vera e propria sfida cognitiva al pensiero filosofico, il quale ha tratto dalla compenetrazione reciproca di cristianesimo e metafisica greca l’appropriazione di contenuti concettuali a «forte carica normativa» quali responsabilità, autonomia e giustificazione, storia e ricordo, nuovo inizio, innovazione e ritorno, emancipazione e compimento, alienazione, interiorizzazione e incarnazione, individualità e comunità. Né, continua, ci si deve aspettare un adeguamento senza pretese da parte dell’ethos religioso, rispetto alle leggi imposte dalla società secolare, tanto che una cultura politica liberale può persino aspettarsi che i cittadini secolarizzati partecipino agli sforzi per tradurre rilevanti contributi dal linguaggio religioso in un linguaggio pubblicamente accessibile al fine di arricchire l’orizzonte dei discorsi che contribuiranno alla vita della democrazia deliberativa.
Macron, da parte sua, con un linguaggio alto, ben lontano dal comune, rissoso parlare di tanta parte della nostra classe politica, nel suo discorso al Collegio dei Bernardins, davanti ai Vescovi di Francia e ai responsabili dei culti, dopo aver riconosciuto il grande, innegabile apporto del cattolicesimo alla storia e al presente della Francia, e la contestuale povertà nichilistica di quella che Paul Ricoeur aveva descritto come la «prospective sans perspective», che questi invitava a superare nella speranza, mantenendo un fine «lontano» per gli uomini, indirizzato da senso morale, ispirato idealmente e traducibile come «spirito religioso», fa richiesta alla chiesa di Francia di tre doni. L’umile saggezza, l’impegno, insostituibile per combattere la piaga del nichilismo e del disinteresse che affligge la Francia e, più significativo per la questione di cui si tratta, il dono della sua libertà. Libertà di essere sé stessa, libertà di enunciare le proprie convinzioni, di additare e dare forma e credibilità a quel bisogno di assoluto che è presente in tutti, credenti e non credenti, libertà di essere scomoda e mai funzionale né perfettamente aderente al discorso politico, ma di cui Macron, per la ricchezza e il rispetto della storia passata e presente della Francia, invoca l’apporto per la costruzione di un dialogo fecondo, mai perfettamente simmetrico, ma necessario per riconquistare al Paese, insieme, dignità e senso.
Il fatto che uno dei filosofi più importanti del ’900, laico, e un uomo politico – altrettanto laico – che ha saputo ricompattare, con sorprendente risultato, l’orizzonte politico gravemente sfaldato di un paese come la Francia, ritengano giusto e opportuno riconoscere alla Chiesa e ai cristiani – cattolici o protestanti che siano e in generale agli spiriti autenticamente religiosi – un importante ruolo come interlocutori nel dibattito pubblico, mi pare sia un riconoscimento da raccogliere. Tanto più se esso viene formulato come riconoscimento della capacità dei cristiani di proporre interpretazioni, concetti, valori da non schiacciare immediatamente e caricaturalmente nella formula di precetti dogmatici e impositivi, estranei al senso comune e ad una visione costruttiva dell’umano.
Testimonianze come queste aiutano a scavalcare il lungo ed estenuante dibattito italiano – e non solo, purtroppo – che divide in modo schematico e fondamentalmente oppositivo i cattolici in conservatori e democratici, riconoscendo, in modo inequivocabilmente super partes, che chi è credente, non per questo rinuncia ad essere cittadino in uno stato democratico in cui tutti possono – e dovrebbero! – avere voce, e che se è importante «curare le ferite» tra queste vi sono anche quelle della ragione, di cui il nichilismo è la più distruttiva. Il cristianesimo, oltre ad essere una fede, è anche la rivoluzione del pensiero più radicale e significativa che mai sia stata prodotta, e la carità più alta che ci sia è, con le poche forze che spettano a ciascuno, condividerla. La lucerna, non vale metterla sotto il moggio.
Dino Cofrancesco dice
Sono completamente d’accordo. Temo, però, che, in Europa, si perda di vista il fatto che la grandezza del cristianesimo (cattolico e non) è consistita nella straordinaria capacità di mediare tra la dimensione comunitaria e nazionale e quella societaria e planetaria. Se scompare la prima, si corre il rischio di ridurne il messaggio a una pappetta universalistica su cui ci troviamo tutti d’accordo come ci troviamo sempre d’accordo sulle enunciazioni generiche di principio. Non è la vacuità etico-politica di Habermas–il teorico del patriottismo costituzionale–a indicare il cammino…
gabriella cotta dice
Non credo, caro Dino, che si possano definire ‘pappetta universalistica’ le idee di uguaglianza, fratellanza e di insormontabile dignità con cui il cristianesimo ha forgiato il profilo dell’umano costituendolo come il vero patrimonio culturale del mondo Occidentale, purtroppo da questo infinite volte tradito. A mio parere, è ancor di più la lettura cristiana della relazionalità strutturale dell’essere umano, mai solamente individuo autoreferenziale ma sempre, invece, connesso all’altro e di questi responsabile, a dover essere riproposta, oggi, in epoca di dichiarata volontà di dissoluzione del soggetto e di ogni sua identità. Solo da qui si può iniziare a ricomporre i pezzi di un orizzonte culturale, politico, etico, che il nichilismo odierno sottopone a incessante trasformazione, divenuta, questa, l’unico imperativo morale cui è obbligatorio conformarsi, insieme alla conseguente, festosa, esaltazione di ogni differenza. Purchè irrelata e, ovviamente, ‘altra’. E’ da qui che si pongono le basi più durature dell’intolleranza, si svuota la democrazia della sua capacità di confronto e di dialogo e l’Europa rinuncia alla propria eredità e ad ogni futuro ruolo culturale e politico.