[*L’articolo è stato scritto dall’Autore e da Federico Niglia, che al tema hanno dedicato il recentissimo volume Berlusconi ‘The Diplomat’]
Il rispetto del contratto di governo è diventato un punto d’onore per le forze della coalizione giallo-verde. Questo è vero soprattutto per il Movimento 5 Stelle, ma anche per la Lega. Il contratto di governo assurge, in un contesto particolarmente dinamico, a cassa di compensazione di interessi divergenti e, molto spesso, contrastanti.
Questa compensazione risulta più difficoltosa nel caso della politica estera, anche perché su questo punto il contratto presenta maggiori elementi di vaghezza. Il punto 10 riservato alla politica estera nel contratto di governo è molto scarno. Una lunga parte (120 parole) è dedicata agli italiani residenti all’estero, ai problemi delle procedure di voto per la circoscrizione estero e degli organi di rappresentanza del consiglio generale degli italiani all’estero. Né nel programma elettorale dei 5 Stelle, né in quello della Lega, e neppure in quello del Centro-destra si ritrova questa priorità della politica estera nazionale. Se ne comprende l’inclusione nel contratto, forse, solo alla luce della fiducia al governo espressa dai senatori del Movimento Associativo Italiani all’Estero.
Per il resto (159 parole), il contratto conferma l’appartenenza dell’Italia all’Alleanza atlantica, con gli Stati Uniti quale alleato privilegiato. Si prevede altresì una apertura alla Russia, che renderebbe ‘opportuno’ il ritiro delle sanzioni e il vedere nella Russia un interlocutore strategico sul fronte Mediterraneo, dove si addensano i principali fattori di instabilità. Ma nulla di più. Alla luce della vaghezza di punto ‘Esteri’ del contratto, appare quindi evidente che i contraenti possono fare quasi tutto, e quasi il contrario di tutto, salvo uscire dall’Alleanza atlantica o invertire l’orientamento di apertura alla Russia che ha caratterizzato la politica estera italiana dal crollo del Muro di Berlino ad oggi.
Molto più dettagliato è il punto 29 dedicato all’Unione europea, il che ci fa anche comprendere che nel mindset giallo-verde il primo banco di prova estero sia proprio quello dell’Europa. Nel contratto si definiscono i temi su cui il governo dovrebbe mostrare maggiore assertività al fine di «una piena attuazione degli obiettivi stabiliti nel 1992 con il Trattato di Maastricht, confermati nel 2007 con il Trattato di Lisbona». In questo punto del contratto vi sono sia il rifiuto delle politiche europee di austerità sia la ferma opposizione ai trattati commerciali in stile TTIP voluti dall’Ue. La chiarezza del documento, del resto, riflette una effettiva convergenza tra i programmi elettorali dei due partiti di governo.
Se passiamo dalle parole del contratto ai fatti della politica estera, allora registriamo che nel Consiglio europeo del 28-29 giugno il governo italiano ha votato a favore del mantenimento delle sanzioni alla Russia. Gli interessi che sono prevalsi, almeno per ora, sono quelli di chi non vuole mettere in discussione la linea europea.
Ciò si registra anche in Libia, dove si addensano i principali fattori di instabilità per l’Italia nel Mediterraneo. Per quanto l’Italia abbia preso l’iniziativa di lavorare per rinviare le elezioni libiche, volute dalla Francia, allo stesso tempo il governo ha deciso di evitare il muro contro muro. Anzi, il governo ha sposato la linea della Francia, da tempo favorevole ad una posizione di maggiore equilibrio tra le parti che si contendono il futuro della Libia. In entrambi i casi, si può quindi sottolineare la ricerca di una linea europea o, comunque, la volontà di non produrre strappi irreparabili con la Germania e la Francia.
Interessi e impulsi i più diversi, spesso contrastanti, concorrono tradizionalmente alla formazione della politica estera in Italia. La storia repubblicana ci mostra che un ruolo decisivo lo hanno i partiti. Ad esempio, benché il paese avesse già deciso, nell’immediato dopoguerra, il suo posto nel mondo, la politica estera rimase un problema per la Balena bianca democristiana. La diplomazia rossa fu il filo che legò Togliatti a Berlinguer, anche se in seguito quest’ultimo fu interprete della svolta estera del Partito comunista.
Ma altrettanto rilevanti, nella storia italiana, sono gli attori istituzionali. Il neo-atlantismo, ad esempio, fu la somma algebrica di interessi ed impulsi provenienti da più parti, ma soprattutto dal Quirinale. Dopo il 2003, la Presidenza della Repubblica ha gradualmente potenziato il proprio ruolo nelle scelte di politica estera, mettendo il Consiglio supremo di difesa nella condizione di esercitare la funzione di indirizzo politico in materia di sicurezza, come previsto dalla Costituzione.
Insomma, più attori politici ed istituzionali storicamente concorrono alla formazione della politica estera.
Ora, lo stato di ‘transizione permanente’ che caratterizza il sistema italiano dei partiti fa sì che questi assolvano al loro compito in modo parziale: in un sistema caratterizzato da una continua campagna elettorale, la politica estera diventa un terreno di confronto e l’azione in questo campo risulta spesso condizionata da contingenze interne e afflitta da discontinuità. Questo stato di cose mette in risalto il fattore umano, l’altro grande attore della politica estera italiana.
L’attuale ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, è considerato un ‘uomo di garanzia’, nominato da Sergio Mattarella per superare le inquietudini dei mercati e degli alleati stranieri. Tali preoccupazioni nascevano dalle posizioni espresse in materia di politica estera (ed europea) dalle due formazioni che compongono la coalizione di governo: i gialli dei 5 stelle e i verdi della Lega. Va detto che da anni, in Italia, la Presidenza del Consiglio ha assunto un ruolo decisivo nella formulazione della politica estera. È stato così con Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi, soprattutto quando Franco Frattini era alla Farnesina. Ma anche durante il lungo governo di Matteo Renzi. Tuttavia, dal momento che l’attuale Presidente del Consiglio non appare una figura di primissimo piano, cresce il timore che i capi politici dei due partiti di governo – che sono anche Vice Presidenti del Consiglio – possano assumere un ruolo crescente.
Solo Matteo Salvini, e non Luigi Di Maio, sembra in realtà disposto ad invadere il campo della politica estera. Sollecitato da una giornalista al margine di un vertice bilaterale con il primo ministro ungherese, il 28 agosto il ministro degli Interni ha difeso la sua invasione di campo: affermando, anzi, che la politica estera dell’esecutivo dovrebbe essere esercitata a «360 gradi». La componente personale della politica estera sta prevalendo, se non su quella istituzionale, sicuramente su quella partitica.
In effetti, con una base contrattuale che indica i contenuti delle politiche, il Vice Presidente e ministro degli Interni potrebbe rivendicare un ruolo di attore (e attuatore del programma). Sarebbe un fatto del tutto inedito nel pur variegato panorama italiano. Resta però il fatto che il contratto, come detto, resta da scrivere nella parte della politica estera. Le contingenze potrebbero favorire il rafforzamento di Salvini. Già il predecessore al Viminale, Marco Minniti, giocò una propria partita in Libia nel campo della politica di sicurezza nazionale.
Ciò nonostante, senza un’esposizione mediatica di Luigi Di Maio, il quale è poco interessato alla politica estera, le seconde linee del Movimento e Palazzo Chigi sembrano lavorare per un quadro di continuità che, nelle loro intenzioni, dovrebbe favorire quelle forzature in tema di bilancio necessarie per mantenere le promesse economiche. Da qui dovrebbe partire una nuova politica europea in tema di ‘patto fiscale’ e commercio internazionale. Si noti, altresì, che il 20 settembre la ministra della Difesa, Elisabetta Trenta, ha annunciato l’avvio della missione italiana in Niger per il controllo dei flussi migratori provenienti dal paese africano. Per quanto la missione, avviata dal precedente governo, fosse stata criticata dai 5 stelle, oggi appare più in linea con il loro interesse a mantenere una linea europea non ostile alla Francia.
C’è tuttavia da credere che Salvini non resti a guardare. Il suo viaggio in Egitto ha preceduto quello di Moavero Milanesi e dello stesso Di Maio, trasformando così l’Egitto in un ritrovato partner a dispetto del caso Regeni e con buona pace di una parte dei 5 stelle (il viaggio riparatore del Presidente della Camera, Roberto Fico, non ha certamente cambiato l’orientamento del governo).
Ad ogni buon conto, come ha affermato in un’intervista a Stefano Pioppi il presidente dello IAI, Ferdinando Nelli Feroci, il dubbio maggiore su chi fa la politica estera oggi in Italia riguarda l’autonomia del capo dell’esecutivo. In un momento come quello attuale, caratterizzato dalla competizione continua tra partiti e dalla presenza di problemi strutturali all’azione internazionale dell’Italia, la vera partita si gioca sugli uomini e le donne che fanno la politica estera del paese.
Dino Cofrancesco dice
Ma davvero si vuole che il caso Regeni condizioni la politica estera italiana e i nostri rapporti con l’Egitto?
direbbero a Napoli