Dopo l’impasse che nel 2013 portò al sesto scrutinio alla rielezione di Napolitano, analogamente nel 2022 i nostri Grandi Elettori richiamano e rieleggono Mattarella all’ottavo scrutinio. Ce n’è abbastanza per chiedersi: ma perché il Presidente non ce lo eleggiamo noi ‘popolino’ direttamente? È una suggestione che a poche ore dalla riconferma di Mattarella rilanciava anche Sabino Cassese, salvo poi ammettere che per una svolta presidenziale o semi-presidenziale non avremmo la cultura politica.
Lasciamo sullo sfondo le paure generalizzate (nei giuristi) del Lupo cattivo – il ‘popolino’ – e proviamo a ragionare su due aspetti. Perché abbiamo la Costituzione così come è? Perché risulta cosi difficile modificare la nostra «forma di governo»?
L’Assemblea Costituente (1946) è divisa quasi a metà tra la componente socialista e comunista (219 seggi) e quella cattolica e liberale (248 seggi). Nell’ottica di breve periodo (nel 1948 si sarebbero svolte le prime elezioni politiche), né l’una né l’altra parte poteva prevedere chi avrebbe vinto. Quando gli attori politici temono per la loro posizione relativa di potere non è escluso che in una fase costituente optino per disegni di garanzia e salvaguardia. Da qui la Costituzione che conosciamo, con un governo debolissimo, in balìa delle Camere e un capo di stato ‘notaio’. Era il modo mediante il quale le parti si garantivano reciprocamente dal rischio della sconfitta politica possibile, impaniando il potere di governo, indebolendolo e aprendo la strada a soluzioni consociative, rendendolo controllabile anche dall’opposizione, come ben aveva visto Giuseppe Maranini.
La Costituzione del 1948 ha in definitiva funzionato benissimo per decenni a questo scopo, fornendo una ‘stanza di compensazione’ ad un sistema partitico ideologizzato e rissoso, ma oggi uno scontro ideologico tra destra e sinistra non c’è più. La nostra cultura politica è cambiata e maturata.
Tuttavia, questo il secondo aspetto, rendendo la Costituzione rigida, di fatto l’art. 138 è una delle difficoltà a riformare. Doveva infatti impedire che l’accordo siglato in Assemblea Costituente fosse modificato unilateralmente da una delle due parti. Stabilendo che si possa chiedere un referendum popolare per la loro conferma, l’art. 138 ha agito per decenni come un fattore deterrente alle riforme. Per evitare il referendum, occorre che la legge costituzionale sia approvata nella seconda votazione da entrambe le Camere con due terzi dei voti a favore. I nostri Padri Costituenti hanno insomma ingegnato un sistema di veti bloccanti mirabile.
Qualcuno recentemente (l’ingenuo Renzi nel 2016), che pure una riforma dei poteri centrali dello Stato era riuscito a farla votare dalla maggioranza richiesta dei due terzi, ha interpretato in senso ‘plebiscitario’ la possibilità del referendum confermativo e, non capendone il vero significato di potere di veto, lo ha addirittura convocato e ne ha fatto le spese. L’opposizione chiese chiaramente il referendum per opporre un veto all’altra ‘grande riforma’ – quella di Berlusconi – e abrogarla, come poi avvenne il 25-26 giugno 2006. Quella riforma, per altro, conteneva proprio un importante emendamento all’art. 138, cancellando il secondo paragrafo, quello referendario. In un passato ormai lontano, si era cercato di evitare le secche dell’art. 138 provando a delineare proposte condivise in Commissioni bicamerali (Bozzi 1983-85; De Mita-Iotti 1993-94; D’Alema 1997), peccato che poi queste mai giungessero alle Camere o fossero regolarmente affossate da protagonisti sleali – come si mostrò Berlusconi nel 1998, rimangiandosi l’accordo sul semi-presidenzialismo raggiunto con D’Alema appena pochi mesi prima.
Gli ostacoli posti dall’art. 138 ai tentativi di riforma della forma di governo sono presto detti: occorrono due votazioni ed è quasi impossibile nella seconda raggiungere la maggioranza dei due terzi in entrambe le Camere, poi poche Penelope che invochino un referendum, bastano appena 60 senatori, possono tentare di disfare qualsiasi tela anche mirabilmente tessuta. Se si cominciasse da lì, rendendo flessibile la nostra Costituzione, il discorso potrebbe ripartire sulla base di un confronto leale. Con procedure semplificate e senza possibili ‘sgambetti referendari’, la parola data nelle Camere vincolerebbe i rappresentanti, perché ora sarebbero essi stessi ad assumere la responsabilità delle riforme senza scaricarla convenientemente sul Lupo cattivo, il ‘popolino’ che molti si ostinano a vedere incolto e immaturo.
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