La Cina è vicina era un film in bianco e nero del giovane Bellocchio del 1967, toccato da una stria ideologica per la presenza di un giovane maoista in un interno borghese abbastanza decadente, come da copione in quegli anni. La vicinanza della Cina, in quel caso, era, dunque, ideologica, lungo la linea un po’ snob dell’estremismo di sinistra interpretato dall’upper class.
La Cina (ma sarebbe più corretto dire l’Oriente), è oggi vicina più di allora, ma per ragioni che non riguardano piccole nicchie culturali, ma l’intero mondo occidentale. Senza infilarci nel frusto ritornello del conflitto di civiltà che da più di trent’anni Huntington ha iscritto nelle ricorrenze inevitabili del dibattito pubblico, possiamo dire che il modello Orientale (o, per dirla come andava di moda negli anni ‘80 nel Far East, il modello che fa riferimento agli «Asian Values») si fa strada nel mondo globale. E non solo per Huawei, Alibaba o Tik tok.
Per lungo tempo, infatti, l’approccio tradizionale della cultura occidentale allo studio del continente asiatico si è caratterizzato con un atteggiamento di indistinzione sintetizzata nell’«orientalismo», che visse una stagione di frequenti citazioni con l’uscita dell’omonimo saggio di Said nel 1978. Si operava, dunque, una riduzione del tutto impropria applicata ad un grande spazio geografico, senza rendere ragione delle diversità religiose, antropologiche, spirituali, economiche e, sul piano degli ordinamenti costituzionali, delle tradizioni giuridiche caratterizzate da proprie peculiarità.
Solo recentemente, partendo dagli studi che la scienza giuridica ha riservato in particolare all’ordinamento cinese, la cultura occidentale ha cominciato ad emanciparsi da una visione riduttivistica per aprirsi ad un’analisi capace di cogliere le specificità dei sistemi giuridici dell’Asia orientale. In questo contesto appare di grande interesse l’esperienza giuridica di Singapore, città-Stato multietnica ma con una forte incidenza della cultura sinica. Singapore aggiunge ai motivi d’interesse per il costituzionalista, anche la straordinarietà della sua performance economica e finanziaria che, partendo da un contesto post-coloniale penalizzato e depresso, ha proiettato la città-Stato al vertice dell’economia e della finanza mondiale, garantendo un PIL pro capite tra i più alti in assoluto.
La Costituzione singaporiana, che aderisce al modello Westminster del colonizzatore britannico appare, in realtà, fortemente ispirata dal modello confuciano che conferisce ai singoli istituti giuridici contenuti modalità espressive particolari, a cominciare dalla legislazione sull’ordine pubblico tendente a conferire effettività al principio del mantenimento dell’armonia sociale, anche al prezzo della riduzione di diritti fondamentali formalmente richiamati nella stessa Costituzione.
L’edificazione della Singapore post-coloniale si deve all’epopea politica del suo fondatore, Lee Kuan Yew, autore di una sperimentazione originale che ha puntato sul sincretismo culturale tra il modello westminsteriano e la dottrina confuciana, con la costruzione di un regime autocratico poggiato, piuttosto che sull’autoritarismo ruvido delle dittature, sulla pervasività della presenza governativa nella vita dei cittadini, basata sullo scambio tra benessere sociale e adesione conformistica al potere.
Il lascito giuridico del colonizzatore, pertanto, è riscontrato nell’involucro formale di istituti e architetture normative proprie del modello Westminster, mentre lo slancio vitale della norma subisce una torsione verso altri valori. La proiezione verso il ruolo di quarta potenza finanziaria globale e di modello avanzato di Smart City, descrivono, pertanto, la traiettoria di un innegabile successo dell’esperienza singaporiana, se riguardato esclusivamente dal punto di vista efficientistico, all’interno di modelli culturali ispirati ai valori confuciani. Un’implicazione del modello confuciano che è ancora oggetto di forti dialettiche con l’universo valoriale dell’occidente è la revoca in dubbio dell’universalità dei valori umani, sostenuta dai portatori degli «Asian Values» perché si rivelerebbe il portato di una forma di colonizzazione culturale del mondo occidentale.
Ma c’è in altra pericolosa deriva del pensiero confuciano, che si traduce in norme giuridiche cogenti, è rappresentata dalla riduzione progressiva della privacy del cittadino per garantire la sicurezza collettiva. L’azione di controllo da parte del governo si caratterizza con comportamenti che vanno dall’incoraggiamento del whistleblowing, all’uso di un portentoso e pervasivo sistema di videosorveglianza, chiamato, peraltro a svolgere un ruolo di oggettiva deterrenza dal compimento di azioni contrarie alla pulizia e al decoro cittadino, alla costruzione del mito della Smart City che consegna nelle mani dei pubblici poteri ogni residua parvenza di privacy, attraverso centinaia di migliaia di ‘smart objects’ a presidio del territorio.
Anche il sistema politico singaporiano non resiste all’influenza culturale confuciana: pur prevedendo un sistema pluripartitico e una premiership contendibile, in realtà consegna la vittoria dal 1959 al PAP, il partito del suo fondatore (ora guidato da suo figlio), saldamente al comando con una maggioranza di parlamentari che non è mai andata sotto l’80%, ed anzi in più legislature ha raccolto nel parlamento monocamerale la totalità degli eletti. Per ovviare all’imbarazzo del plebiscito perpetuo, nel 1984 venne introdotta una riforma costituzionale per consentire una rappresentanza alle opposizioni risultate escluse dal Parlamento, prevedendo la cooptazione di un certo numero di non eletti.
Insomma: un altro pianeta, un po’ distopico e un po’ perfetto. Soprattutto dotato di un’altissima capacità di adattamento. Risorsa fondamentale, di questi tempi.
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