L’intervista rilasciata da Fausto Bertinotti a Federico Ferraù, M5S e Lega ci hanno rubato la rivoluzione è, a mio avviso, tanto emblematica quanto sottovalutata. Le tesi del fondatore nel 1991 di Rifondazione Comunista sono infarcite di preconcetti ideologici ma, altresì, di un realismo che «viene da lontano». Quest’ultimo emerge subito nell’incipit: «La vittoria di M5s e Lega è la manifestazione di una rivolta lungamente covata, inespressa, impossibilitata a emergere per la mancanza di soggetti politici capaci di darle forma». Forse sarebbe stato meglio dire che il 4 marzo è calata dal volto dell’elettorato di sinistra (almeno di una sua parte rilevante), quella maschera di ferro modellata da un partito che si richiamava a Lenin e a Gramsci, a Togliatti e a Berlinguer ma nascondeva fattezze antiche: di un popolo estraneo ai valori della ‘società aperta’, diffidente nei confronti del mercato e del capitalismo, pronto ad accusare le classi dirigenti dei loro guai («piove, governo ladro!»), convinto che lavoro ed occupazione debbano essere assicurati dallo Stato e non dall’intraprendenza della società civile. È un’antropologia politica che il fascismo non ha certo contribuito a superare anche se la sua ideologia riconosceva i diritti del capitale e della proprietà privata ma li voleva bilanciare con l’«interesse superiore della Nazione». Tra associazioni industriali e sindacati, il duce «fé silenzio ed arbitro si assise in mezzo a lor». E i risultati si sono visti: sfido a incontrare un vero fascista che non mostri una qualche diffidenza nei confronti del mondo imprenditoriale ma, quel è più rilevante, non c’è mai stata, nel nostro paese, una political culture che ne abbia inteso davvero la funzione sociale. Negli anni 60 si è avuto un boom che ha portato gli Italiani a godere di un reddito e di un tenore di vita superiori agli Inglesi ma non ricordo quasi film o romanzo che getti una luce positiva sugli artefici di quella autentica rivoluzione sociale, gli industriali del triangolo Torino/Genova/Milano. A differenza dei film americani, che rispecchiavano i valori di una società fondata sui diritti individuali e sulle garanzie della libertà, i nostri ci restituivano un’immagine dell’imprenditore che aveva il volto di Claudio Gora nel film (peraltro, molto bello) Una vita difficile di Dino Risi (1961): non un misto di bene e di male, di luci e di ombre, di egoismo mandevilliano e di fruttuose ricadute sociali ma un bieco e cinico produttore di merci culturali richieste da un pubblico superficiale e amorale.
Bertinotti mette il dito sulla piaga quando afferma che l’antielitarismo leghista e pentastellare «contiene un elemento importante: la critica a un potere ormai privo di legittimazione democratica» e, altresì, quando fa rilevare che « la diseguaglianza, che è il cuore del problema ed è stata il grande assente della campagna elettorale». Avrebbe dovuto aggiungere, però, che tale assenza si spiega con la scelta di una sinistra economicamente fascistizzata, nel senso che ha lasciato cadere, in teoria, l’ostilità alla grande borghesia e al capitalismo per mantenere il principio che tocca ai poteri pubblici provvedere al benessere delle classi diseredate. Non a caso, come spiega nei suoi libri, Luca Ricolfi – il sociologo politico meno condizionato dai pregiudizi ideologici in circolazione – i quartieri ricchi delle grandi città hanno assicurato il maggior numero di consensi al PD.
I populisti, spiega Bertinotti, «vedono bene che le grandi forze del capitalismo finanziario globale, le stesse che legittimano le oligarchie europee, hanno prodotto un processo di spoliazione e diffuso la povertà. Dunque, la critica a quest’oligarchia è condivisibile e ha un fondamento sociale riscontrabile, ma al tempo stesso mette in luce la natura ambigua dei due movimenti, perché invece di sfidare quell’oligarchia sulla base di una visione alternativa di società, di classe dirigente e di modello di sviluppo, fanno della dimensione local-nazionale una struttura protettiva. La pars destruens è condivisibile, la pars construens è inadeguata».
Sennonché, come potrebbe il modello dirigista – e de facto burocratico e pauperista – del buon Bertinotti sedurre masse sempre più esigenti in fatto di diritti sociali? Solo in Cina quel modello si è dimostrato compatibile con un’economia affluente, ben inserita nella globalizzazione ma quel che ne è venuto fuori è un mix di un capitalismo e di diseguaglianze non meno profonde di quelle occidentali, e di uno stato dittatoriale, indistinguibile da Cuba o dalla vecchia URSS.
In realtà, il problema delle vecchie élite è quello di preservare quanto rimane del Welfare State scaricandone gli oneri non sui poteri forti ma sulle classi medie. Per questo autorevoli organi di stampa, commentatori politici, politologi di regime auspicano un governo che riconcili sinistre e M5S: ovvero i nobili decaduti e gli stallieri che ne hanno raccolto l’eredità elettorale. Si può anche trattare sui cavoli del reddito di cittadinanza se l’establishment salva la capra della sua presa sull’economia.
Barraco Tarlati Bartolomeo Walter dice
Non dobbiamo dimenticare che Bertinotti ha fatto parte di quella ideologia di Populismo iniziata nell’era moderna da Lenin, proseguita in Italia da Togliatti il quale se ne fregò di Gramsci, per arrivare ai giorni nostri con Dalema e Bersani. Inoltre c’è da dire che oggi si pagano le politiche della sinistra fatte dagli anni 70 in poi, questo ci ha portato ed ha partecipato in massima parte al buco di oltre duemila miliardi di debito pubblico.
Michele Magno dice
Bellissimo articolo. Mi permetto di ricordare a Cofrancesco un film, “Mi manda Picone”. Girato nel 1982 da Nanni Loy, uno dei maestri della commedia all’italiana, racconta la frenetica ma vana ricerca di un operaio delle acciaierie di Bagnoli, scomparso in ambulanza dopo essersi dato fuoco davanti al consiglio comunale. Lo spettatore scopre lentamente, attraverso un viaggio tra i misteri di una Napoli che è la traparente metafora dei nostri vizi nazionali, che quell’operaio faceva mille mestieri diversi e aveva molte vite differenti. In altre parole, la sua identità sociale non era chiaramente definita, ma era ambigua e sfuggente, quasi inafferrabile. La sensibilità artistica di Loy aveva colto perfettamente la mutata percezione del lavoro di fabbrica, ormai vissuto come un ripiego e non più come motivo di orgoglio. Dopo un decennio di battaglie che ne avevano celebrato la centralità, all’inizio degli anni Ottanta la classe operaia sembrava sulla via di uno storico arretramento. Come già era stato intuito dai vignettisti di Cipputi, la tuta blu sfidata dalla modernità, e di Gasparazzo, il proletario disincantato e scansafatiche. È allora che comincia a fiorire una vasta letteratura sul tramonto del lavoro salariato nella società industriale. L’aveva pronosticato lo studioso marxista Harry Braverman, studiando gli effetti della meccanizzazione negli Stati Uniti (Labour and Monopoly Capital, 1974). Nel 1980 André Gorz, davanti alla disoccupazione in salita e agli orari in discesa, ne decretava addirittura la sparizione (Adieux au prolétariat).
Dall’esaltazione del “lavoro liberato” all’esaltazione dell’ozio creativo il passo è breve. Poiché non esiste alcuna possibilità di opporsi alla frantumazione del lavoro che si consuma nel passaggio dal fordismo al postfordismo, l’unica risposta plausibile diventa così la creazione di una nuova cittadinanza basata sui principi del “minimo vitale” e della “decrescita felice”.Il declino della società del lavoro, insomma, partorisce miracolosamente una nuova cittadinanza, che trova in se stessa le sue radici e la sua giustificazione. Dal punto di vista culturale, qui persiste una “corrispondenza di amorosi sensi” tra Bertinotti e Grillo, che spiega -almeno in parte- la seduzione esercitata dal M5s su taluni ambienti della sinistra italiana. La tesi, lo so, andrebbe meglio argomentata, ma sono stato già troppo prolisso. Comunque, è sempre un piacere leggere Cofrancesco.