Sabato 15 ottobre 2022 si è tenuta a New York una bizzarra manifestazione: hanno sfilato i (finti) sostenitori della (altrettanto fasulla) teoria complottista denominata «Birds aren’t real». Secondo questa eccentrica dottrina, ideata e diffusa dal giovane studente americano Peter McIndoe, tutti i volatili sarebbero in realtà piccoli robot, o droni, costruiti dalla CIA e sostituiti agli uccelli in carne e… ali a fini di controllo della popolazione statunitense.
Attenzione, però: non si tratta, per fortuna, di un nuovo culto preso assai sul serio dai propri seguaci, ma del tentativo di mettere alla berlina la mentalità complottista tanto diffusa oltreoceano e incarnata, ad esempio, dalla narrazione paranoica e allucinata di QAnon, che ha ispirato i protagonisti dei fatti di Capitol Hill. Ciò non toglie, comunque, che svariati utenti dei social network venuti a contatto con «Birds aren’t real» l’abbiano scambiata per una autentica, ed ennesima, teoria cospirazionista, sebbene la maggioranza di chi la conosce ne comprenda e condivida l’intento dissacratorio e la richiesta di riportare veridicità e consapevolezza al centro della sfera pubblica democratica.
Una trovata creativa e intelligente che potrebbe – e forse dovrebbe – spingerci a riflettere sulle condizioni nelle quali versa l’opinione pubblica (non solo americana), apparentemente smarrita e incapace di orientarsi nel magma comunicativo nel quale siamo immersi.
È diventato quasi un Leitmotiv attribuire la responsabilità di un simile stato di cose ai social. Nessuno nega, ci mancherebbe, che Facebook, Twitter, Instagram, Tiktok, Twitch e innumerevoli altre piattaforme abbiano mutato non solo la percezione della realtà e buona parte dei comportamenti dell’opinione pubblica, ma persino la sua stessa composizione. Eppure, a chi scrive non pare convincente assumere, a tal proposito, una prospettiva catastrofista e apocalittica, come quella – pur intellettualmente assai stimolante – sviluppata dal filosofo Byung-Chul Han, una delle voci più ascoltate nel dibattito contemporaneo.
Se è vero – e lo è di sicuro – che l’opinione pubblica stia mostrando una manifesta difficoltà a ricoprire la funzione ‘classica’ attribuitale in passato, quella di contropotere composto da individui e gruppi capaci di interpretare criticamente e filtrare i messaggi provenienti dall’alto e dal basso, le cause appaiono molteplici. Dall’accelerazione dei processi comunicativi all’overload informativo, dal crollo dell’idea novecentesca di partito politico alla dematerializzazione dei cicli produttivi, per tacere della pervasività dei riferimenti a uno scenario necessariamente globale, ma spesso avvertito come oscuro e distante, le motivazioni abbondano.
Sicché, come ha splendidamente chiarito William Davies, i richiami tribali ed emotivi si rivelano troppo seducenti per non riscuotere approvazione e successo; la medesima accoglienza riservata alle loro incarnazioni politiche maggiormente contigue, nazional-populismo e sovranismo. Ma è proprio qui che dovrebbe emergere una risposta convincente da parte di chiunque abbia a cuore il fondamento razionale e istituzionale delle nostre società (sino a quando?) aperte.
Ecco perché, di fronte a uno scenario francamente scoraggiante, ben vengano i tentativi come quello elaborato da McIndoe e i suoi giovani collaboratori. L’obiezione potrebbe sorgere spontanea: non basta. Chi lo nega? Ma fenomeni come «Birds aren’t real» portano con sé un vantaggio che li rende vincenti: coinvolgere le generazioni dei nativi digitali, che se talvolta possono tradire ingenuità ed eccessiva fiducia nel maneggiare gli strumenti che la rete mette a loro disposizione, sono ben più attenti a cogliere i cambiamenti in atto e smascherare i tentativi di manipolazione cui, invece, risultano credere con maggiore facilità le fasce d’età meno verdi.
Se desideriamo ridurre la polarizzazione e l’apatia del pubblico contemporaneo, insomma, forse dovremmo compiere un atto di fede e affidarci a quanti non si rassegnano a vivere nell’epoca della post-verità ma lottano, spesso con mezzi non convenzionali, per riportare pluralismo, tolleranza, capacità di argomentare e coscienza critica al centro delle nostre vite. Magari anche sfruttando una qualità che sembriamo aver dimenticato: la fantasia.
Marco Tarchi dice
Se si parla dell’uso di richiami emotivi in politiuca, oltre agli abusati nazional-populismo e sovranismo, è il caso di citare il progressismo, che liquida fenomeni come l’immigrazione di massa con il ricorso alla commozione e alla compassione così come sull’altro versante si fa con l’evocazione della paura. Due retoriche simmetriche, anche se solo una è “politicamente corretta”. E quanto al tribalismo, quello di taluni gruppuscoli settari del dopo-Sessantotto ha poco da invidiare a quello degli equivalenti odierni di opposto segno.
Luigi Marchetti dice
Iniziativa geniale: l’intento dissacratorio è più efficace di tante riflessioni………..
dino cofrancesco dice
Articolo eccellente che demistifica tanta letteratura complottista sul complottismo.