[Editoriale di «Paradoxa» 3/2020, La Comunicazione al posto della politica, a cura di Mario Morcellini e Michele Prospero]
A tutta prima si resta piuttosto disorientati quando il Curatore, proprio in conclusione dell’ampia (e utilissima) positio quaestionis con cui introduce queste pagine, ricapitola il discorso svolto definendo «la fase storica che stiamo vivendo come una ‘secolarizzazione’ della conoscenza e del comportamento sempre più tipica dei moderni» (p. 33). Sembra difficile, in effetti, trovare qualcosa di più estrinseco e meno pertinente, rispetto alla questione del rapporto tra politica e comunicazione, di un riferimento al complesso processo storico che consiste nella progressiva perdita di rilevanza della religione nella società moderna. In realtà l’effetto (voluto) di spaesamento è efficace nel richiamare l’attenzione del lettore sul paradigma teorico attivato dalla tesi cardine proposta da questo fascicolo.
Se, infatti, ‘secolarizzazione’ è, in senso stretto, il trasferimento della proprietà di beni ecclesiastici allo Stato e, per estensione, il passaggio di concetti, competenze, poteri e strategie di legittimazione del potere, dall’ambito della religione a quello della politica, allo stesso modo la provocazione – e l’allarme – lanciata dai saggi qui raccolti è che la politica stia subendo oggi, quasi per contrappasso, un’analoga espropriazione ad opera della comunicazione.
Stiamo insomma assistendo ad un passaggio epocale che può esser descritto come «sostituzione della politica con la comunicazione in tutte le sue declinazioni» (p. 13); un passaggio che si configura come una cessione di sovranità a tutti gli effetti: così come la Chiesa, nella modernità, ha dovuto rassegnarsi a passare lo scettro al principe, ora è il principe che, nell’epoca dei social, finisce con l’essere un semplice strumento al servizio del suo spin doctor.
La tesi, tanto chiara quanto radicale, dà voce a un disagio ampiamente avvertito, sebbene spesso in modo troppo indistinto per superare il livello della lamentela, sempre in bilico sul qualunquismo, circa il fatto che la politica sembra ormai ridotta a puro marketing. Al contrario queste pagine, a partire dai ben undici indicatori rilevati dal Curatore che distillano dall’insieme dei contributi alcuni nuclei concettuali portanti, aiutano a discernere aspetti e portata dell’assorbimento delle logiche, delle strategie e dei fini della politica da parte della comunicazione.
Ma prima di addentrarsi nel vivo della questione, che è opportuno affidare alla competenza degli autori coinvolti, può essere utile rilevare un paio di implicazioni del paradigma ‘secolarizzante’ che viene qui proposto.
Innanzitutto è necessario sottolineare che il collassare della politica sulla comunicazione è fatale non solo per la prima, ma anche per la seconda.
Lo si potrebbe illustrare – per restare in tema di secolarizzazione – utilizzando il teologumeno della communicatio (per l’appunto) idiomatum nella persona di Cristo, ma è forse più efficace l’immagine delle stanze comunicanti proposte da uno degli autori (cfr. Mulargia, p. 115), che rende intuitivo uno dei presupposti essenziali della comunicazione: perché questa abbia luogo è richiesta una differenza qualitativa, una eterogeneità di ambienti e di contesti che rende necessaria la trasmissione di informazioni da un punto ad un punto qualitativamente altro.
Necessaria, ma anche possibile: se, infatti, l’apertura che mette in comunicazione i due spazi si allarga fino a cancellare ogni parete divisoria, la comunicazione diventa autoreferenziale, ossia apparente, perché emittente e destinatario vengono a coincidere e non c’è più alcuna informazione di cui uno sia in possesso e l’altro privo. E se gli ambienti ‘politica’ e ‘comunicazione’ si sovrappongono fino a rendersi indistinguibili, anche in questo caso la comunicazione diventa tautologia, non trasmette più nient’altro che se stessa (come farebbe un povero Cristo che fosse nient’altro che uomo).
Di qui i fenomeni lucidamente messi a fuoco dai contributi qui raccolti; fenomeni all’apparenza molto diversi e che però possono esser letti come varianti dell’unico imporsi di una in-differenza: l’indistinzione tra pubblico e privato, il passaggio dal modello comunicativo verticale a quello circolare del peer-to-peer a fondamento di ogni populismo, lo schiacciamento della policy sulla politics, e infine – e soprattutto – l’appiattimento sul presente di quella differenza qualitativa tra un ‘prima’ e un ‘poi’ che istituisce l’orizzonte temporale: appiattimento che è all’origine, per esempio, dell’indistinguibilità tra un’azione politica e l’annuncio della medesima (lucide e sconfortanti, a tal proposito, le considerazioni di Di Gregorio sulla politica degli ‘annunci’) o del dominio incontrastato dell’emozione, la quale non è affatto il contrario del pensiero, ma «pensiero veloce» (Preiti, p. 86).
Un secondo aspetto implicito nel paradigma adottato emerge direttamente dall’ormai lungo (e intricato) dibattito sulla secolarizzazione in senso proprio, ma può essere utilmente applicato anche al caso della ‘secolarizzazione’ della politica: la «sostituzione» di un ambito con un altro non si traduce mai in un annientamento dell’ambito sostituito. Il rimosso ritorna, anche se variamente travestito, e di un’assenza non ci si libera così facilmente.
Lo spazio della politica, ancorché vuoto, resta quello che è: come ben mette in evidenza Cuperlo, i conflitti, i rapporti di forza, le emergenze e tutto ciò che è di natura squisitamente politica può, certamente, essere ignorato, ma non tolto. Vale a dire che qualunque risposta si decida di dare – persino una risposta autoreferenziale e vuota come uno slogan, persino una non-risposta –, è comunque, volente o nolente, un’azione a tutti gli effetti politica.
Il che significa, per un verso, che alla responsabilità politica non si sfugge; ma significa anche, per altro verso, che non tutto è perduto e che c’è ancora spazio di manovra: lo stesso gesto di denuncia dello scambio di ruoli tra politica e comunicazione, lo stesso tentativo di tornare a pensare la distinzione tra i due ambiti, è un gesto intrinsecamente politico. E queste pagine, alle quali non per caso hanno contribuito diversi autori impegnati in prima persona e in vario modo nella vita pubblica, sono politica e non (soltanto) comunicazione.
Nico Delfine dice
Ritengo che la Comunicazione non abbia cancellato la Politica, piuttosto ha contribuito a cannibalizzare il confronto politico accelerandone l’estrema personalizzazione. La Comunicazione ha quindi determinato la mutazione genetica della Politica che intanto diventava sempre più orfana delle culture politiche e delle scuole di partito, ridotte a perenni comitati elettorali ormai più virtuali che fisici. Credo anche che la Comunicazione abbia “semplicemente” colmato il vuoto determinato da fattori endogeni ed esogeni che hanno avuto un ruolo sempre più decisivo dai primi anni ’90 in poi. Solo nuove personalità (non personaggi) sapranno ridare alla Politica la dimensione che merita…