Conservatori vs progressisti. Un’antica diatriba che risale almeno al Settecento e che viene riproposta in un dibattito di queste settimane, innescato da un articolo di Galli Della Loggia sul «Corriere della Sera». La contrapposizione di destra e sinistra, che sempre più spesso viene considerata obsoleta (ma di questo si potrebbe discutere), viene sostituita da questa coppia, tutt’altro che nuova, ma come tutti i concetti politici sempre rinnovata. La differenza, la faglia, tra le due posizioni, sarebbe data dal rapporto che esse stabiliscono tra l’umano e la natura. La posizione progressista, secondo i suoi nemici, è quella che non riconosce all’umano limiti naturali, affermando una antropologia dell’onnipotenza e della libertà assoluta. Il riferimento esplicito è alla pretesa di superare anche la differenza dei sessi in una idea di fluidità e di auto-percezione dell’identità di genere. Ma anche la scienza, e il ruolo sempre più invasivo che le sue applicazioni assumono nelle nostre vite, è bersaglio dei (neo)conservatori, per i quali i progressisti sono coloro per i quali la scienza – la tecnoscienza, la chiama qualcuno – è sempre, per l’appunto, progressiva, anche quando altera la natura; e non ne vedono i pericoli, che invece sono lì a minacciare l’esistenza umana e naturale. I conservatori, peraltro, andrebbero ben distinti dai reazionari: non vogliono tornare indietro, ma innovare conservando la sostanza positiva dell’umanità e della sua storia. È la posizione che nel modo migliore, già nel 1790, aveva illustrato Edmund Burke nelle sue note Riflessioni sulla Rivoluzione francese. Luca Diotallevi, in un interessante articolo apparso sul «Messaggero», complica ulteriormente la questione introducendo una terza categoria, il riformismo, e sostenendo che i veri riformisti sono i conservatori.
È un intrico di temi diversi, non sempre facile da sciogliere. Anzitutto, identificare il progressismo con la cultura woke e la teoria gender fluid equivale a costruirsi un facile obiettivo polemico. Progressista, nella storia delle culture politiche, è parola usata soprattutto nel mondo anglosassone per riferirsi a una sinistra non socialista o non solo socialista. In senso molto simile è stata usata anche nella sinistra italiana per definire un terreno sul quale si potessero riconoscere, insieme a persone di formazione socialista-socialdemocratica, nonché ex-comunista, anche persone di formazione cattolica o liberale. Si può certamente sostenere che si tratta di una definizione poco precisa dal punto di vista concettuale, come spesso avviene alle denominazioni politiche; ma non si può attribuire a questi progressisti un’idea ottocentesca del progresso («le magnifiche sorti e progressive», giustamente irrise da Leopardi). Le denominazioni valgono quel che valgono; devono essere riempite di contenuti. Così come giustamente si fa per la denominazione di conservatori, lo stesso si dovrebbe fare con quella di progressisti. Perciò, se è giusto distinguere conservatori da reazionari, è anche giusto distinguere i progressisti dai libertari più estremi, con i quali invece li si vuole confondere.
Ma, al di là delle denominazioni, sempre discutibili e spesso arbitrarie, le questioni fondamentali in gioco sono due: quella della scienza, e quella della storia. Per quanto riguarda la prima, è facile osservare che la contrapposizione tra scienza e natura non fa più parte della cultura occidentale dai tempi di Galileo. Si potrebbe dire che proprio nel superamento di questa contrapposizione affondano le radici dello straordinario sviluppo – scientifico, ma anche economico, culturale, politico – della civiltà europea e poi occidentale. La ricerca scientifica, come creazione di nuovi mondi, è parte costitutiva della natura umana. L’homo sapiens è allo stesso tempo homo faber, e questa attitudine alla trasformazione del mondo esterno è la sua caratteristica distintiva nel mondo animale a cui appartiene. La natura come tale – sia intesa come natura umana, sia come natura fisica – non esiste più da quando esiste l’uomo. Ciò che noi chiamiamo natura è, come diceva Hegel, «seconda natura». E la ricerca scientifica non è contenibile da restrizioni esterne in nome di pericoli veri o, spesso, presunti. Lo stesso vale per le sue applicazioni, per quella vituperata tecnica che ci ha dato la bomba atomica, ma anche la medicina nucleare, i vaccini, i mille strumenti e dispositivi che rendono la nostra vita incomparabilmente più facile di quella dei nostri antenati. Che poi questo progresso abbia dei limiti morali, fa parte certamente del destino umano: né i progressisti né i conservatori pensano che sia possibile un mondo perfetto. Peraltro sarebbe difficile negare che un mondo nel quale non si uccidono (quasi mai) popolazioni intere per la loro fede religiosa, non si squartano i condannati sulla piazza, si considera reato la tortura e lo stupro, sia almeno un po’ migliore di quello del passato.
L’altra grossa questione è quella della storia. I progressisti negano la storia? Solo se li si identifica con i partigiani della cancel culture: ma è una operazione del tutto infondata. Altra cosa è il discorso di Burke, che oppone la forza di una tradizione che si è data istituzioni come la famiglia e lo stato, che nel tempo hanno dato una prova positiva, ai principi astratti della rivoluzione. I principi astratti sono criticabili quando sono strumenti di cancellazione della storia, ma spesso diventano poi concreti, e ispirano movimenti che portano avanti la storia stessa. L’eguaglianza è un principio astratto quando ispira il Terrore e la ghigliottina, ma è ben concreto quando ispira la battaglia per l’abolizione della schiavitù o quella per la liberazione delle donne. Su questi obiettivi certamente i conservatori non reazionari sono d’accordo con i progressisti; così come i progressisti, quelli veri e non inventati, sono d’accordo nel ritenere la cancel culture un crimine, non solo verso la storia, ma verso la stessa umanità e il suo cammino fatto di errori e di conquiste.
Dino Cofrancesco dice
Trenta e lode all’amica Claudia per il suo post su Conservatori vs progressisti. Sì, ha ragione, i conservatori vanno distinti dai reazionari e i progressisti dai fanatici dell’apocalisse egualitaria. Un passo ulteriore, però consiste nel capire quali soni i paletti che impediscono ai conservatori di farsi reazionari e ai progressisti ghigliottinatori. A mio avviso, nel primo caso, quei paletti stanno nel senso delle libertà civili e politiche che può portare i conservatori a sacrificarne alcune in nome dell’ordine ma sempre con juicio; nel secondo caso, stanno nel pluralismo preso sul serio che significa il rispetto di tutti i valori anche di quelli che non si condividono. Il progressista alla Claudia Mancina rispetta gli avversari, consapevole che i valori sono tanti e ciascuno li gerarchizza in modo diverso; il progressista alla Monica Cirinnà—quella di “Dio, Patria Famiglia che vita de merda!”—pensa che ogni sconfitta della propria parte sia una vittoria del diavolo. Di conseguenza…
Michele Magno dice
Articolo eccellente. Una buona dose di igiene linguistica e concettuale è sempre benvenuta. Michele Magno