Nel lunghissimo tempo di sospensione del ritmo ordinario della vita pubblica e privata a causa della pandemia, l’emergenza ha dettato le sue ragioni, certamente non replicabili in altri contesti. Si pensi al cospicuo pacchetto di provvedimenti emanati dal governo e da altri organi pubblici, una contabilità che raggiungeva la soglia di 264 atti all’altezza dell’8 maggio secondo i ricercatori di Openpolis, molti dei quali prodotti con la forma giuridica del dpcm, scelta che tanto ha fatto discutere i costituzionalisti.
Anche l’emergenza, dunque, in un ordinamento democratico, deve rispondere a principi e strumentazioni definite da un protocollo di garanzia che nel nostro sistema non è declinato in modo specifico, tant’è che sono state avanzate alcune proposte di riforma costituzionale ad hoc, volte ad ancorare, in contesti, appunto, emergenziali, i comportamenti dei vertici dello Stato a canoni precisi.
Tuttavia, e fortunatamente, l’emergenza da coronavirus passerà – si spera entro tempi ragionevoli – e le dinamiche sociali saranno restituite alla normalità democratica, cancellando questa lunga parentesi di incertezza psicologica e normativa. Tutto potrà riprendere il suo ritmo ordinario, salvo, forse, qualcosa di nuovo, indotto da chi abbia il potere di farlo. Qualcosa che trova minore resistenza a ‘passare’ perché nel clima dell’emergenza si è dimostrato necessario.
L’uso del remoto per svolgere attività lavorative, per esempio, che ha coinvolto fasce larghissime di popolazione con effetti sicuramente importanti e positivi, ma che ha anche spalancato porte a nuove forme di sfruttamento intensivo e di alienazione (che appaiono parole desuete estratte da glossari marxiani…).
L’online come cifra del nuovo tempo, però, non si ferma allo smart working ma lambisce anche le sponde della democrazia. Si pensi al dibattito, che pure ha avuto un sua dignità scientifica tra i costituzionalisti, sul voto da remoto per le deliberazioni parlamentari, modalità peraltro esplicitamente esclusa dall’art. 64 Cost., che invece esige la presenza fisica dei votanti. Chi propone l’innovazione ha sostenuto un’interpretazione evolutiva del concetto di ‘presenza’ da applicare limitatamente ai momenti di emergenza come quello che stiamo vivendo. Ma, tecnicalità giuridiche a parte, il punto è che l’applicazione del metodo ci mette poco a scivolare dall’emergenza all’ordinarietà e a toccare le vette dell’utopia – o della distopia – dell’agorà digitale, che faceva bella mostra di sé in qualche programma elettorale nelle ultime due elezioni politiche.
Ma non è finita: siamo alla vigilia di un voto regionale che coinvolgerà più di un terzo della popolazione italiana. Se le pressioni dei presidenti delle sei regioni interessate troveranno ascolto nel governo, si potrebbe andare a votare addirittura a fine luglio. E se i desideri dei capi di partito dovessero realizzarsi, ci potrebbero essere modifiche alle leggi elettorali, che ogni regione sarebbe poi chiamata a recepire nella sua autonomia legislativa, per escludere i voti di preferenza in favore delle liste bloccate.
Insomma: sotto il manto generoso del coronavirus avremmo un turno elettorale con una probabile drastica riduzione della partecipazione (al 20, 30% degli aventi diritto?), con liste già confezionate, sullo schema vigente nel Parlamento nazionale.
Che dire? Epifanie di una democrazia della fase due? Di fatto, il combinato disposto tra le due possibilità che sono nell’orizzonte del dibattito pubblico italiano, si muove nella direzione di un ridimensionamento del ruolo della rappresentanza e dunque del significato della sovranità popolare, devolvendo quote fondamentali del potere politico a oligarchie partitiche e divaricando ancora di più il rapporto tra corpo elettorale e rappresentanza.
Del resto, la crisi del parlamentarismo – non solo italiano – si consuma nel silenzio dei media da un ventennio e ad ogni legislatura registra uno slittamento progressivo verso una trasformazione che tende a snaturare la vocazione costituzionale del Legislativo. Basterebbe guardare i numeri delle leggi discusse e approvate: quello che non emerge mai nella comunicazione che circola abitualmente è che oggi solo un terzo delle leggi approvate ha un’origine parlamentare, mentre più di due terzi è prodotto dal governo, e non solo sotto forma di decreto.
Un rapporto che, in altre stagioni, vedeva una netta prevalenza della proposta parlamentare su quella dell’Esecutivo. Quella che lievita a dismisura, in compenso, è una particolare forma degli atti d’indirizzo parlamentare: l’ordine del giorno che impartisce istruzioni al governo sull’attuazione delle leggi, e non prevede sanzione in caso di non ottemperanza.
Fino ad oggi, per esempio, la Camera ne ha discussi 4898 e ha preso in considerazione 21660 emendamenti alle leggi in discussione (che, come si è detto, sono in massima parte di origine governativa), approvandone soltanto il 2,2%. Numeri che sono sintomi eloquenti di un cambiamento che sta investendo profondamente il ruolo delle Camere legislative, e con esse della rappresentanza, e che impongono una riflessione profonda, non liquidabile certamente con tecniche di votazione da remoto.
Gianfranco Pasquino dice
Apprezzo regolarmente gli interventi di Pisicchio, intelligenti, informati, misurati. Questa volta, però, ho due obiezioni. La prima riguarda i numeri. Se davvero un terzo (33 per cento) delle leggi approvate sono di origine parlamentare, l’Italia sarebbe un’eccezione clamorosa rispetto, ad esempio, a Germania e Gran Bretagna (ma anche Francia, semipresidenziale) dove, quella percentuale è raramente superiore al 15-20 per cento. Attendo precisazioni. La seconda obiezione è di “filosofia politica”. Con le leggi il governo, qualsiasi governo traduce le sue promesse elettorali in politiche pubbliche. Ha il diritto istituzionale e il dovere politico di farlo. Invece, per lo più, i parlamentari fanno leggine ad uso personale, lobbistico, propagandistico, con scambi impropri che non giovano al bilancio dello Stato. Meglio di no.
Pino Pisicchio dice
Caro Professore, intanto la ringrazio per l’attenzione, la considerazione e le obiezioni. Provo sinteticamente a raccogliere il suo invito. I dati relativi alle proposte di legge di origine parlamentare sono desunti dai siti ufficiali delle Camere all’altezza della settimana passata. Rilevo, senza nostalgie, che il rapporto tra iniziativa parlamentare e iniziativa governativa si è modificato parecchio rispetto a stagioni in cui vi era una prevalenza dell’origine parlamentare. Giustissima è la sottolineatura che il prof.Pasquino fa, relativa al ruolo svolto sul piano legislativo dai governi in Germania, Francia e Regno Unito, ordinamenti in cui, peraltro, il rapporto tra capo del governo (premier o, presidente) e maggioranza è, in genere, molto più saldo di quello che, storicamente, si è dimostrato essere quello italiano. Aderisco, di conseguenza, anche al contenuto della sua seconda obiezione “filosofica”. Auspicando, tuttavia, se possibile, una consapevolezza delle assemblee parlamentari dei processi di mutamento in corso (che, francamente, non sembra esserci) ed un rafforzamento del ruolo di controllo sull’attività del governo. Grazie ancora.