Speriamo che del Sessantotto non resti solo una specie di mito romantico, quello coltivato da chi rimpiange i suoi vent’anni (o giù di lì) o da chi legge tutto come rivoluzioni abortite per la crudeltà del destino cinico e baro. Anche se quello è un approccio che attira, riduce un evento che è stato importante ad un inutilmente nostalgico ‘noi credevamo’.
Il Sessantotto è stato un momento in cui è arrivata sulla scena internazionale la percezione che il mondo andava verso una svolta epocale. Una percezione confusa, solo in minima parte razionale, generata magari dalla rivolta contro un passato che si reggeva ormai su piedi d’argilla, ma che non si decideva a crollare.
Come in tutti i terremoti, crollano gli edifici fragili, ma anche quelli che nelle loro fragilità inglobano elementi che raccolgono la ricchezza creativa degli uomini. Tuttavia è un po’ ingenuo chiedere che nel momento in cui tutto si mette in gioco si manifestino tendenze ai sottili distinguo, impulsi a valutare nel dettaglio cosa val la pena di rimuovere e cosa no, cosa sarebbe meglio ripensare in forme diverse.
È troppo facile fare una critica al Sessantotto partendo dalla banale constatazione che spesso si è buttato via il bambino con l’acqua sporca. Per esempio è scontato dire che la battaglia contro l’autoritarismo ha compromesso (e molto) un discorso serio sull’autorità come funzione necessaria in ogni tessuto sociale. Oppure rilevare che lo slogan sul privato che è pubblico da un problema politico di coerenza si è trasformato in una teatralizzazione delle vite di ogni singolo offerte al palcoscenico cinico della mitica Rete.
Metterla in questo modo significherebbe sfuggire alla constatazione che quel mondo di ieri non è stato più in grado di rigenerarsi. Certo spinte alla ‘restaurazione’ se ne sono viste, eccome. Tuttavia sarebbe bene distinguere. Alcuni dei fenomeni che a volte si classificano in quel modo non sono che costanti storiche con cui tutte le civiltà devono fare i conti. Per esempio le tensioni di potere che si generano fra gli attori della comunità internazionale, a cui non si può rispondere mettendo dei fiori nei loro cannoni (che oggi sono missili e lì è anche complicato metterceli). Altri fenomeni non hanno conosciuto restaurazioni se non eventualmente in sette molto circoscritte: pensiamo alla fine del sistema di istruzione come via di formazione alla cittadinanza e all’esercizio della razionalità, ma anche al tramonto di quello che era il tradizionale disciplinamento socio-culturale delle chiese cristiane dopo la Riforma (un fenomeno che coinvolge tanto i cattolici quanto i protestanti).
E allora cosa rimane del Sessantotto? Mi permetto di dire che sopravvivono, con drammaticità e con angoscia, due cose. La prima è che quasi tutte le confuse domande che si iniziarono a porre allora oggi rimangono in campo: rimodulate dall’impatto e dalle verifiche di mezzo secolo, ma sono ancora lì e chiedono di essere studiate e perfezionate per trovare risposte. La seconda è che ciò postula la presa in carico del problema che pone ogni transizione epocale, perché oggi sappiamo che è con questo che dobbiamo fare i conti. Si tratta di accettare la lezione che l’immaginazione non può andare da sola al potere, che volere l’impossibile non è realistico, ma lo è la fatica del costruire passo dopo passo un mondo nuovo, quello che costituisce l’eterno paziente travaglio di ogni riforma.
Il Sessantotto non è stato che l’inizio di una battaglia che va continuata. Nel modo giusto però.
[NdR Su questo tema, l’Autore ha recentemente pubblicato il volume Cosa resta del ’68]
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