Ora che il governo Draghi si è formalmente insediato, è possibile riflettere sul suo significato nella storia d’Italia, cercando di andare un po’ al di là delle formule trite che si sono ascoltate o lette in queste ultime settimane. Innanzitutto, sbarazziamoci dell’argomento – sbagliato e infondato – sulla crisi della politica innescata dalla caduta del governo Conte e dall’arrivo del nuovo esecutivo.
La ‘crisi della politica’ è un fenomeno ben più grande e più grave di quanto questo tornante della storia italiana, sebbene complesso, possa lasciare intendere. Fortunatamente, ce ne siamo già occupati, in profondità e da una pluralità di prospettive, in un fascicolo apposito di «Paradoxa» e a quello rimando per chi volesse approfondire l’argomento.
Senza troppe sorprese, la formazione del governo Draghi è l’ennesima, infelice conferma della crisi non della politica tout court, ma di quella particolare forma di politica organizzata, condotta e promossa dai partiti politici. Che Draghi non sia soltanto un tecnico ma un politico di razza basta poco per capirlo. Basta osservare il suo cursus honorum e sapere che ha giocato un ruolo importante, per alcuni cruciale, nella difesa della moneta unica e nella gestione della crisi del ‘debito sovrano’ nell’area Euro per intuire che del tecnico Draghi ha, al di là della formazione, poco altro. Forse è un triste segno dei tempi, e probabilmente anche della concezione di ‘politica’ a cui ci siamo assuefatti in Europa, se qualcuno può pensare anche solo per un istante che il tema della ‘moneta’ e del ‘debito’ siano questioni tecniche o dettagli impolitici.
L’arrivo di Draghi a Palazzo Chigi segnala, però, in maniera lampante, lo stato critico dei nostri partiti. Dei ‘nostri’, in Italia, molto più che altrove, soprattutto se ci confrontiamo – come dovremmo fare – con le altre grandi democrazie dell’Europa occidentale. In questo eterno presente che è ormai diventato il nostro unico orizzonte di scopo e di senso, abbiamo perso di vista un dato che, in qualsiasi altra democrazia avanzata al mondo, farebbe sobbalzare sulla sedia.
Ci siamo mai chiesti, infatti, per quanto tempo di questa disgraziata (e mal detta) ‘Seconda Repubblica’ siamo stati governati da un presidente del Consiglio che possa essere definito come un uomo – o donna – di partito (cioè, formato, reclutato e nominato da un’organizzazione partitica)? Ormai ci siamo talmente abituati che neppure ci facciamo più caso, ma dei 28 anni che ci separano dal turning point del 1993 solo per 5 anni il governo è stato affidato a un esponente di partito.
In tutti gli altri casi, cioè nell’80 per cento del tempo, a Palazzo Chigi abbiamo mandato una figura esplicitamente, volutamente, spavaldamente non-partitica: prima il ‘banchiere’ Ciampi, poi l’imprenditore self-made Berlusconi, poi di nuovo il banchiere Dini al quale ha fatto seguito il Professore-senza-partito Prodi, per arrivare all’economista Monti, all’avvocato (del popolo, of course) Conte e, infine, al chief economist Mario Draghi.
Che cos’hanno in comune tutte queste figure? Questo: che al loro debutto nell’arena della politica non avevano nessuna affiliazione, nessuna carriera, nessuna ambizione all’interno dei partiti politici esistenti. Anzi, in alcuni casi il loro principale atout era una certa dose, più o meno mascherata, di antipartitismo, di insofferenza verso i giochi, o i teatrini, della politica partitica.
All’interno di questo quadro, il caso di Mario Draghi non fa clamore. Non è l’eccezione che conferma la regola, ma è la norma che viene ribadita e ormai si è fratta prassi. Però, se proprio dovessi individuare qualcosa di eccezionale nella vicenda del governo Draghi, non sta tanto nella sua particolare natura ma in ciò che essa rivela o disvela. Dietro il governo Draghi mi pare di intravedere, neanche troppo in filigrana, la crescente tensione insita nella democrazia liberale, ossia tra la sua componente popolare (democrazia) e quella aristocratica tipica del liberalismo. Per almeno un secolo, questo matrimonio d’interesse ha funzionato: le spinte egualitarie venivano controbilanciate dalle pressioni liberali. E viceversa.
Poi, come succede anche nei migliori matrimoni, qualcosa si è rotto e i due coniugi hanno preso – o vorrebbero prendere – strade diverse. La sovranità popolare si è stancata di essere tenuta sotto controllo da ‘cattive’ élite. E, per tutta risposta, l’aristocrazia liberale si è data alla fuga, sia sul piano culturale che materiale. La XVIII legislatura del nostro parlamento è l’emblema di questo (tentato) divorzio liberal-democratico: per quasi un biennio abbiamo assistito al populismo al potere, per quanto faticosamente ammaestrato, e ora siamo alla stagione degli esperti al potere.
Per chi, un tempo, si lamentava dell’assenza di alternanza in Italia, ora ne abbiamo improvvisata una modalità tutta nostra: dalla demagogia dei primi all’oligarchia dei secondi. Di degenerazione in degenerazione, come un cane che si morde la coda. Finché morte, della democrazia liberale, non li separi.
Laura Paoletti dice
E a me compete
https://www.novaspes.org/rivista-paradoxa/numeri/paradoxa-anno-xiv-numero-3-luglio-settembre-2020/
(e in particolare in questo fascicolo, quanto agli effetti perversi di un eccesso di comunicazione il contributo di Luigi Di Gregorio
Dino Cofrancesco dice
Per Raymond Aron i partiti erano così importanti da segnare lo spartiacque tra le democrazie liberali e le altre. La crisi oggettiva della democrazia (liberale) coincide con il tramonto dei vecchi partiti ‘ideologici’ (le virgolette sono ironiche: per me ‘ideologico’ non è un termine dispregiativo) e con la sudamericanizzazione della politica–leader carismatici e movimenti magmatici. Il problema è quello di individuare le cause politiche e culturali (in senso lato) che hanno portato a questo. Forse un bell’esame di coscienza dovrebbe partire dalle scuole e dell’Università.
Marco Valbruzzi dice
Mi accodo, buon ultimo, ad Aron. E infatti credo che la crisi della liberal-democrazia sia la crisi di quel “trattino” che fino a ieri teneva assieme i due lati della medaglia e oggi non ci riesce più a svolgere quella funzione di unione e bilanciamento. I partiti politici di massa (e “di massa” perchè ideologici) sono stati il “trattino” della liberal-democrazia.
Sulle cause, penso da tempo che la risposta vada ricercata nel mondo dell’istruzione. Ma qui, forse, la mia posizione diverge da quella di Cofrancesco: a mio avviso, sono stati i liberali che hanno abbandonato il campo di battaglia, lasciando praterie ai sostenitori del “progetto egualitario” (ecco, così, che torna Aron…).
Gianfranco Pasquino dice
Forse l’autore si è fatto prendere dall’entusiasmo di andare controcorrente per definire Draghi “un politico di razza”. Quali sono i criteri che stanno a fondamento di questa valutazione? Forse, il suo predecessore Giuseppe Conte ha esagerato con le conferenze stampa e le dichiarazioni pubbliche, anche con i DPCM. Subito, però, è già spuntato il primo DPCM Draghi senza che i preoccupatissimi giuristi si strappino, come coerentemente dovrebbero fare, le vesti e i capelli. Non sarebbe, a questo punto, il caso che il Presidente Draghi, “politico di razza”, dia inizio alla sua comunicazione politica con l’elettorato, con l’opinione pubblica? Non è in questo modo che in democrazia si pongono in essere e si rinsaldano i legami fra politica e società, fra governanti e governati? Oppure, è proprio qui che i “tecnici”, ancorché di grandi competenze e qualità, dimostrano che, purtroppo, per loro e, in definitiva, per tutto il sistema politico, non sono affatto “di razza”, ma sono quasi irrimediabilmente carenti?
Marco Valbruzzi dice
Grazie per il commento puntuale, as usual. Che Draghi fosse un politico (non partitico) “di razza” possiamo dirlo guardando al passato, per le scelte fatte e le decisioni prese, sia in Italia che in Europa. Per ora, non possiamo dire la stessa cosa sulle sue qualità di governo e di governante, tra le quali certamente non deve mancare un’efficace comunicazione. Giusto, dunque, che (ci) si interroghi sulla modalità comunicative per rinsaldare i legami fra politica e società. Possibilmente, non prendendo a prestito le pratiche dei suoi predecessori: comunicatori “di razza”, con tanto di spin incorporato, che però hanno contribuito ad allentare il legame fra politica e società. A questo punto però mi assale il dubbio: non è che sia stata proprio l’overdose comunicativa ad allargare irrimediabilmente quel fossato?
Maurizio Griffo dice
Concordo con l’ultima osservazione. Credo che la overdose comunicativa sia una parte non piccola del problema