Per la prima volta nel petto di un uomo batte il cuore di un maiale geneticamente modificato. Siamo dinanzi a quella che è stata definita una tappa storica, una svolta nella storia dei trapianti che apre alla possibilità di utilizzare gli organi degli animali come ‘pezzi di ricambio’ per gli esseri umani, senza problemi di carenza e infinite liste di attesa. Sappiamo che il malato ha deciso di sottoporsi all’operazione chirurgica, ancora sperimentale, perché non aveva alternative né poteva aspettare il cuore di un donatore umano.
«Stanno iniziando a schiudersi porte che condurranno a grandi cambiamenti nel modo in cui affrontiamo la carenza di organi». La dichiarazione del chirurgo che ha effettuato l’operazione, al di là dei toni trionfalistici – l’inaugurazione di una nuova era della medicina – evidenzia tuttavia la gravità di un problema tuttora irrisolto. Quella che è di fatto la giustificazione dello xenotrapianto è infatti la mancanza di organi umani disponibili: il cuore di un maiale geneticamente modificato era l’unica opzione. «Un salto nel buio» – così è stata definita dal paziente, un uomo di 57 anni con una grave malattia cardiaca, la sua «ultima scelta».
Ci troviamo di fronte a un evento che, al di là delle diverse valutazioni di carattere strettamente scientifico, dovrebbe spingerci a qualche ulteriore riflessione di carattere bioetico, a partire innanzitutto dalla constatazione che lo xenotrapianto solleva talune questioni peculiari attinenti al concetto stesso di specie. Non si tratta infatti, come nella sperimentazione classica, di servirsi degli animali come cavie o semplici strumenti di ricerca biomedica: l’utilizzo di organi prelevati da esseri viventi di una specie diversa da quella del ricevente configura una vera e propria interazione tra le specie. Come è agevole constatare, è un salto di qualità decisivo giacché, per la prima volta, il problema etico è davvero interspecifico. Né si può evitare il riconoscimento che ci troviamo dinanzi a un problema umano che dovrebbe auspicabilmente trovare la sua soluzione nell’ambito della nostra comunità umana. Non dovremmo infatti dimenticare che il concetto stesso di donazione si inquadra in tutta una serie di vincoli specificamente umani, che acquistano senso e significato solo all’interno della nostra comunità di specie, senza trascurare che è in gioco in essa qualcosa di molto profondo e oscuro che coinvolge il nostro corpo e la rappresentazione simbolica che ce ne facciamo. Si tratta di un aspetto – la forte valenza simbolica del corpo – cui non si presta in genere sufficiente attenzione, ma che ha implicazioni esistenziali rilevanti.
Quali effetti potrebbe scatenare l’inserimento nel nostro corpo di un organo di una specie straniera (xenos) se già l’organo di un altro (allos) individuo della nostra stessa specie suscita turbamenti e inquietudini profonde? Mi sembra dia prova di straordinaria superficialità chi pensa che l’espianto di un organo da un animale sia una semplice operazione tecnica di trasferimento da un corpo all’altro. Proprio perché siamo animali simbolici – che conferiscono senso e attribuiscono significati al loro agire – lo xenotrapianto non può non mettere in causa la nostra stessa idea di umanità e di animalità e le rappresentazioni che ce ne facciamo. Né l’umanizzazione dell’animale, attraverso l’inserimento di geni umani nel dna, sarebbe sufficiente a placare le nostre inquietudini, a cominciare, ad esempio, dall’ansia da contaminazione (il timore dell’imbestiamento). È non poco significativo, a questo riguardo, che l’uomo trapiantato abbia chiesto al chirurgo: «Pensa che poi comincerò a grugnire?».
Come è noto, nel caso dello xenotrapianto la comunità scientifica ha sempre raccomandato di procedere con grande cautela, valutando i possibili rischi derivanti dalla contiguità e prossimità interspecifica, tra cui i rischi di trasmissione di agenti infettivi sconosciuti, in particolare virali, dall’animale all’uomo. Sappiamo che gli scienziati stanno lavorando da molti decenni in particolare sui maiali per fare in modo che i loro organi diventino compatibili con quelli degli esseri umani ed evitare che vengano rigettati una volta trapiantati. Restano le forti riserve di carattere bioetico nei confronti di questa pratica – che possono avere le motivazioni più diverse, dalla paura della contaminazione tra specie differenti fino al rifiuto, sul versante animalista, di ridurre gli animali a meri serbatoi di organi – ma che sembrano, ad una più attenta considerazione, radicarsi nel timore di una perdita. Perdita di quel sentimento di specie, di quell’appartenenza che mi spinge ad adottare comportamenti preferenziali nei confronti dei miei conspecifici perché simili a me e quindi a me più fraternamente vicini. È la parentela che sento con un mio simile, un mio conspecifico, che dovrebbe motivare comportamenti di generosità che costituiscono aspetti significativi della vita morale come, ad esempio, la donazione di un organo. Si potrebbe altresì suggerire che il legame di specie presenti una caratteristica ambivalenza dal momento che è all’origine non solo di atti pesantemente discriminatori nei confronti di altre specie – da cui lo specismo – ma anche di atti di solidarietà e di sollecitudine verso i propri simili – da cui la cura. Lo xenotrapianto rappresenterebbe, allora, la sconfitta di quel legame privilegiato tra i membri di una specie che li rende – o dovrebbe renderli – più sensibili alle altrui esigenze e più pronti a corrispondere alle richieste di aiuto. Il legame – di famiglia, di nazione, di specie – può infatti ritenersi alla radice dei comportamenti solidali, degli atti cosiddetti supererogatori che, come la donazione, implicano un sovrappiù di coinvolgimento affettivo e di impegno etico e dovrebbe costituire pertanto una forza operante nella coesione di ogni gruppo sociale. Per questo dovremmo forse cominciare a chiederci se il conclamato successo scientifico – molti sono ancora, a detta degli stessi ricercatori, gli ostacoli da superare e il problema del rigetto degli organi rappresenta un’incognita che rimane aperta – non celi comunque in sé un fallimento etico.
Luisella Battaglia dice
Facendo seguito all’intervento di Laura Paoletti, che condivido pienamente, vorrei precisare che non v’è alcun dubbio che, nel caso dello xenotrapianto, ci muoviamo nel quadro consueto dello sfruttamento degli animali ma è altrettanto indubbio che tale sfruttamento, con tutte le particolarità che lo caratterizzano e che ne fanno qualcosa di ‘conturbante’—per usare un termine caro a D’Agostino—si collochi all’interno di un problema umano più generale—quello della carenza della donazione degli organi—e che è altrettanto ‘conturbante’: il perdurante egoismo della nostra specie.
laura paoletti dice
La precisazione di Francesco D’Agostino è inoppugnabile, tuttavia Luisella Battaglia si chiede quanto, aldilà della diversa sensibilità animalista di ciascuno, lo sfruttamento degli organi di specie diversa contribuisca ad accentuare l’egoismo della specie umana della quale si dà per scontato il primato.
Francesco D’AGOSTINO dice
Laura Paoletti interpreta Luisella B. insistendo sul fatto che la specie umana sia “egoista” e che noi diamo troppo facilmente per scontato il suo “primato”.
Mi limito ad osservare:
a) quale specie vivente sarebbe “non egoista”? Ogni individuo di ogni specie vivente ha come obiettivo la sopravvivenza e la riproduzione. È possibile confutare questa affermazione? Solo nel caso della specie umana ci troviamo di fronte (almeno in alcuni rari casi) al superamento dell’ egoismo; si tratta però di un superamento spirituale, non biologico;
b) come non dare per scontato il primato della specie umana? Quale altra specie avrebbe un primato? Aspetto una risposta.
Francesco D’AGOSTINO dice
Lo xenotrapianto non va collegato al concetto di “ donazione “, come fa la prof.ssa Battaglia, ma a quello di “utilizzazione “ (o, se si preferisce, di “sfruttamento “), come ad es. avviene nell’alimentazione carnivora o nel ricorso al latte vaccino per molti Neonati. Di conseguenza, lo xenotrapianto rafforza l’idea del primato della specie umana su qualunque altra specie animale, come mostra il fatto che, almeno fino ad oggi, nessuno è arrivato a proporre uno xenotrapianto dall’uomo all’animale.