La riflessione di Cofrancesco sul ’68 ha il merito di aver colto con lucidità forse la ragione più profonda della crisi attuale del nostro Paese, la perdita del sentimento di appartenenza ad una comunità politica.
Il nostro sentimento nazionale è talvolta minato da una sottile malattia. Una sorta di senso servile che gli impedisce di riconoscere il valore di una identità anche nel momento semmai della disfatta. Mi sono chiesto se anche nel sessantotto non si annidasse un tale senso. E mi sono purtroppo risposto che sì, ancora una volta in quel periodo ci siamo trovati di fronte al manifestarsi di quella malattia endemica.
Retrospettivamente, a mio parere, in un tale periodo quest’ultima ha ripreso vigore a causa dell’ipercapitalismo che ha surrettiziamente influenzato i vari movimenti di protesta.
Sì, scrivo proprio iper-capitalismo e non anti-capitalismo, come sarebbe forse più ‘politicamente corretto’ dire, perché quest’ultimo, l’anti-capitalismo di quegli anni, è stato sorretto da una idea utopica che è nata all’interno dell’ideologia capitalistica. Si tratta della convinzione secondo la quale grazie alla tecnologia sia possibile abolire il fenomeno fondamentale sulla base del quale è stata costruita tutta l’economia politica moderna, ovvero la scarsità.
Quando in quegli anni sulla scia di Marcuse si è parlato di abolizione del principio di prestazione o quando in Italia si è teorizzata la ‘maturità del comunismo’, si è ritenuto che ad un certo stadio di sviluppo delle ‘forze produttive’ si potesse eliminare la scarsità, lo sfruttamento e, con il dissolvimento della prima, anche le esperienze psicologico-esistenziali legate appunto alla scarsità, cioè il principio di prestazione. Non ci si è resi conto che quella ideologia iper-capitalistica è servita solo ad una autolegittimazione vuoi del capitalismo reale, vuoi del comunismo; in sintesi di due forme di organizzazione economico-sociale, che, giunte al limite di uno specifico processo espansivo, dovevano essere preparate ad accettare quel certo grado di ritorno della scarsità, che sarebbe stato necessario per passare ad un nuovo modello.
In parole più semplici si potrebbe dire che, mentre si pensava allora ad un processo incrementale di liberazione dal bisogno, si preparavano le masse ad accettare un impoverimento ‘temporaneo’ necessario per realizzare pienamente l’obbiettivo della liberazione. Ci si preparava alla partecipazione al superamento definitivo della penuria e in realtà si stava entrando in una età di neo-liberismo. Ci si preparava a vivere in un comunismo affluente e ci si avviava verso il naufragio nella penuria e nella corruzione dello strumento reale di quel medesimo comunismo, ovvero del capitalismo di Stato.
Ho voluto fare questa divagazione per richiamare alla memoria una ideologia che conduce o forse presuppone la dissoluzione di qualsiasi appartenenza ad una comunità politica e che ha influenzato fortemente il nostro ’68. Non devo, infatti, rammentare che è proprio l’ideologia iper-capitalistica che è alla base vuoi dell’estinzione dello Stato, vuoi dell’indebolimento di esso (e delle comunità politiche) a favore del sistema sopranazionale del diritto dei privati, quale si è in gran parte realizzato nella e con la globalizzazione.
Purtroppo da noi l’ideologia alla quale ho fatto riferimento si è saldata con nuove manifestazioni di un problema che al fondo è storico. Si è saldata con un anti-nazionalismo basato sul trionfo, nel secondo dopo-guerra, di forze esse stesse di natura ‘internazionalista’ quali quelle cattoliche e quelle socialiste-azioniste e comuniste. Un anti-nazionalismo facilitato da un nazionalismo retorico prevalso già al momento dell’unificazione italiana, causato dalla reale sconfitta di quella parte del Risorgimento che ha finito i suoi giorni, tanto per dire, vuoi a Caprera, vuoi in oriente, come quella figura di garibaldino che mi sta molto a cuore. Un nazionalismo retorico che a ben vedere ha poi caratterizzato gran parte della storia seguente, fino a che sono prevalse di nuovo forze politiche non-nazionaliste o anti-nazionaliste. L’Italia, cioè, è diventato uno Stato, ma non ha saputo essere una nazione. È stata sede di due imperi, quello romano e quello cristiano; ma l’uno e l’altro sono stati e ancor oggi sono relativamente incompatibili con una comunità politica che sostenga il nome di Italia. Questa è, tuttavia, riuscita ad affermarsi sia come comunità di cultura, sia come comunità di commerci; ma l’una e l’altra non sono state in grado di indicare un destino suo proprio alla nostra nazione. Ed oggi quest’ultima sembra quasi stia abdicando anche al senso del proprio ruolo culturale. Subalterni ad una Europa matrigna, politicamente balbettiamo, perché abbiamo preso la via europea ancora una volta retoricamente e nel segreto di accordi dei quali non solo il popolo tutto, ma anche gran parte delle classi dirigenti non sono state pienamente consapevoli. Abbiamo lottato contro il fondamento effettivo dello Stato, l’autonomia dell’alta burocrazia rispetto al sistema politico; abbiamo reso indipendenti dallo Stato e dipendenti dall’Europa parti fondamentali del medesimo Stato; con un debito pubblico quale abbiamo sviluppato abbiamo reso impossibile la creazione di una efficiente forza militare ed una politica estera all’altezza della nostra naturale sfera di influenza, il Mediterraneo, abbiamo con un più o meno alto grado di inconsapevolezza continuato a minare le basi di qualsiasi possibile comunità politica consapevole di se stessa.
Tutto negativo, allora? No di certo. Non dobbiamo dimenticare che abbiamo avuto un Risorgimento autenticamente nazionale e non retoricamente tale. Possiamo senz’altro affermare che esso, il Risorgimento, non è stato affatto nazionalista; essendo emerso quest’ultimo soprattutto dopo l’unificazione forse sulla base del nostro colonialismo. Nel bene e nel male, pur condizionati da un sistema delle grandi potenze già da secoli consolidato, siamo riusciti a compiere il passaggio dal mondo agricolo a quello industriale in un brevissimo lasso di tempo; anche se oggi stentiamo nel passare dal mondo industriale a quello finanziario e digitale.
Infine, mi sia consentito un pizzico, questa volta sì, di buona retorica.
La cultura del sistema politico attuale non è in grado di individuare gli obbiettivi intorno ai quali rigenerare la comunità politica. Questo compito nell’ora presente spetta, a mio parere alla politica della cultura (se questa ne è capace); la letteratura sia consapevole, si assuma il compito di formare di nuovo un’anima; le scienze economiche, giuridiche e sociali gli orizzonti dell’economia nazionale (pur in un contesto più ampio) e quelli della restaurazione dello Stato; le scienze naturali e tecnologiche la ricostituzione della base di tutto ciò, ovvero del ‘corpo’ della nostra nazione. E infine, per favore, non chiudiamo le università perché in deficit; commissariamole e facciamole semmai funzionare in modo efficiente. Cerchiamo di non colpire una volta di più le regioni che, se sono periferiche rispetto all’Europa, sono tuttavia al centro di quel Mediterraneo, che non può essere colpevolmente sottostimato dalla nostra Nazione e che ci è stato preservato grazie a due grandi idealisti come Papa Pio V e Giovanni d’Austria.
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