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Dalla cancellazione all’obliterazione

7 Luglio 2022 di Laura Paoletti 1 commento

[Editoriale di «Paradoxa» 2/2022, “Cancel culture. Uso e abuso”, a cura di Gianfranco Pasquino]

Immaginiamo di praticare un’incisione sulla Statua della Libertà, in modo da rimuovere un ampio riquadro rettangolare che va dall’altezza delle spalle fin quasi alle caviglie: otterremo così una rappresentazione (approssimativa) di Liberté oblitérée, un’opera dell’artista francese Sacha Sosno, e un’immagine piuttosto precisa del senso complessivo di questo fascicolo. Il quale può esser icasticamente riassunto dal gesto tipico dell’art oblitéré – «nascondere per vedere meglio» – e quindi letto come messa in opera di un ripensamento della cancellazione, e della sua cultura, in termini di ‘obliterazione’. Vediamo meglio.

Nel sollecitare una riflessione sulla cancel culture, il Curatore offre uno spunto che viene ripreso, rilanciato e radicalizzato dai contributi qui raccolti, forse al di là (in qualche caso molto al di là) delle stesse intenzioni di partenza. Pur nel quadro di una prospettiva valutativa che è e resta fortemente critica, Pasquino propone «di procedere a un confronto serrato che prenda le mosse dal riconoscimento dei cancellatori di cultura come interlocutori con i quali confrontarsi, impratichendosi della loro ‘cultura’» (p. 20). Gli autori di questo fascicolo prendono il suggerimento molto sul serio.

Certo, di fronte agli episodi più macroscopici di quell’atteggiamento ultra ‘politicamente corretto’, che abbatte monumenti e rade al suolo (metaforicamente o letteralmente) ogni vestigio del passato che viene ritenuto veicolo di un disvalore attuale, la tentazione di alzare il sopracciglio accademico e di relegare nel folklore, quando non nel ridicolo, opinioni e gesti che di ‘culturale’ hanno ben poco è molto forte. Proprio per questo sono utili innanzitutto alcuni caveat che le pagine che seguono consegnano al lettore. Il primo è che la cancel culture può intersecarsi di fatto, ma non coincide in linea di principio con il politically correct, che è eventualmente solo una (e non la principale né la più interessante) delle ragioni che muovono i ‘cancellatori’. Il secondo è che è necessario chiarire (e alcuni contributi lo fanno in modo molto puntuale e con dovizia di informazioni) su quale sia non tanto il significato quanto piuttosto la connotazione valutativa dell’espressione cancel culture. Si tratta di un’etichetta denigratoria o di un’orgogliosa rivendicazione identitaria? Chi ha cominciato ad usarla, e quando, e con che intenzione? È significativo che spesso e volentieri si discuta appassionatamente di cultura della cancellazione ignorando bellamente la risposta a domande tanto basilari. Non a caso, il terzo monito che emerge da queste pagine è proprio l’invito a prendere consapevolezza di quanto una facile irrisione della cancel culture sia essa stessa una variante della cancel culture. Identico il meccanismo: si modella un avversario a propria immagine e misura, irrigidendolo in una forma plastica ai limiti della caricatura, per poi rimuoverlo con facilità. Identico il risultato: nel posto lasciato vuoto dal primo si colloca fatalmente un altro monumento che prima o poi subirà la stessa sorte. Con fine ironia Pasquino definisce «granitici» i «cancellatori» (p. 20), sottolineando appunto il fatto che il problema non è tanto la cancellazione in sé quanto piuttosto la tendenza al granito che la anima, una tendenza che non vede l’ora di solidificarsi nell’ennesimo, rassicurante monumento da idolatrare e poi abbattere.

Con un atteggiamento tutt’altro che ‘cancellatore’, i diversi contributi distinguono e distillano le istanze teoriche con cui la cancel culture costringe a fare i conti nonostante e al di là dei suoi eccessi e semplificazioni: prima fra tutte quella di uno sguardo vigile e critico sulla storia. In un certo senso si può persino parlare dello storico come «cancellatore professionale» (Nedelmann), paragonandone il metodo a quello popperiano della falsificazione, e vedere nella disciplina storica un lavoro di «contrappelo» (Cento), che rimuove le sedimentazioni per restituire la parola a quel che dalla storia è stato silenziato, in primis le voci dei vinti. Questo non significa affatto che la storia non consista anche nella paziente ricostruzione dei fatti, ma che il fatto (participio passato) non è e non può diventare un monumento cui rendere culto. Come già si è avuto modo di osservare introducendo il fascicolo sulla Fine della storia? (4/2020) – che sarebbe assai utile mettere in tensione e risonanza con questo – un certo lavoro dell’immaginazione, una certa mitopoiesi, è sempre e comunque all’opera, anche nella più avalutativa delle ricostruzioni. Il che significa che una corrispettiva operazione di demitologizzazione è altrettanto ineludibile. E torniamo qui all’immagine dalla quale abbiamo preso le mosse, perché, a ben guardare, quel che è qui in gioco non è affatto una cancellazione. Non si tratta infatti di togliere, ma di aggiungere (Boni). Non si tratta di distruggere, ma di decostruire.

Quando Sacha Sosno fa in modo che possiamo guardare non solo la Statua della Libertà, ma anche attraverso di essa, non ha semplicemente tolto una certa quantità di materiale, ma ha aggiunto uno sguardo: non ha demolito la statua, ma ha consegnato la possibilità di una lettura diversa della stessa statua, di una giusta distanza rispetto ad essa che non silenzia nessuno, ma dà voce e possibilità alla critica. Obliterare (per esempio un titolo di viaggio) non significa distruggere, ma sottrarre un oggetto alla norma consueta che gli conferisce un certo valore; significa – etimologicamente – sovrascrivere, apporre su (ob) una litera un altro segno e un’altra voce: che è poi il compito stesso di ogni culture.

Paradoxa 2_2022

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Commenti

  1. Gianfranco Pasquino dice

    8 Luglio 2022 at 16:28

    molto centrate le considerazioni della Direttrice responsabile della Rivista. Erratissimo è cancellare con una scrollata di spalle la cancel culture. I cancellatori vanno obliterati ricorrendo alle conoscenze/competenze e raffinando la storia e la memoria. Questo è il compito anche di una rivista di cultura. Mi pare, ma non vorrei lodarmi e lodare troppo “Paradoxa” e i collaboratori (un tot di lodi, però, è dovuto), ma abbiamo cominciato piuttosto efficacemente. Ci torneremo, magari stigmatizzando i nugoli di erroretti dei politicamente corretti: una minaccia/una promessa.

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