In queste settimane è fonte di parziale sollievo e domande irrisolte l’arrivo della primavera. Improvvisamente, ci si accorge che i flussi della natura scorrono indifferenti alle nostre pastoie, quasi fosse una novità inedita. Vero e suggestivo, se non fosse che è sempre stato così.
Non mi risulta che molti si accorgessero della inesorabile esplosione di vita che ciclicamente si ripete quando, ad esempio, il Mediterraneo inghiottiva centinaia di esseri umani dimenticati per destino solo qualche mese fa. La primavera non se ne è accorta, è di moda dire oggi, quando, dopo molti decenni da casi analoghi, ci troviamo nel mezzo di un’epidemia i cui tempi non sono certi, ma la cui estensione è inedita.
All’improvviso, l’uomo delle nostre società mediamente ben pasciute e viziate comprende che tutto ciò che dava per scontato, di fatto, non lo è. Si accorge che il proprio individualismo sfrenato è il regalo pieno di insidie di una società capitalista compiacente, concesso a patto di essere organici al mercato dell’immagine e dei beni.
E cosa fa? Diventa poeta. Improvvisamente, vede con occhio romantico tutto ciò che normalmente lo lascia indifferente. Realizza l’esistenza di un mondo giustificato in sé, non in ragione del suo sfruttamento. L’uomo comprende che questo mondo ha la sua meravigliosa e ineludibile autonomia.
Lo comprende? Sono scettico al riguardo. Tutto il fiorire di pensieri belli, in questi giorni e che probabilmente dovremo leggere per un po’, è per gran parte un ulteriore esercizio dell’io che cerca di trovare, anche in questa circostanza, l’angolo migliore per farsi un selfie, fosse anche un selfie in forma di pensiero. La coscienza è altro.
Magari si svilupperà in qualcuno già predisposto, eredità faticosa ma fruttuosa per il futuro. Nella maggior parte dei casi, i suoi primi vagiti spariranno nel momento esatto in cui il pericolo cesserà. La macchina tritatutto del consumo individuale e collettivo riprenderà in modo parossistico, per cercare di compensare le perdite della pausa non prevista.
La primavera, il sole, l’inverno, i fiori sono sempre stati meravigliosamente beffardi. Mi stupisce l’ingenuità collettiva, forse recitata, della scoperta che la primavera si fa strada anche nel tempo del coronavirus. La primavera è sempre stata primavera, e il sole aveva l’ardire di splendere anche su Auschwitz come su Katyn’, Srebrenica, in Ruanda e in tutti gli infiniti luoghi che sono stati testimoni di orrori indicibili cui non sono state riservate le maniere delicate dei versetti poetici.
Tutte le guerre ed epidemie del mondo e della storia sono state pennellate dai raggi del sole, dai colori delle stagioni, dalle meraviglie dell’autunno come quelle dell’inverno. Accorgersene può essere un punto di partenza.
Solo se risveglia la coscienza della contraddizione insanabile che è costantemente presente nelle nostre vite anche quando, a stomaco pieno e in salute, non ce ne accorgiamo. Quella contraddizione è la garanzia della dinamicità dell’esistenza che sta nella promessa della sofferenza come della gioia. Quella contraddizione esiste per farci da pungolo, e spingerci a guardare oltre. Non solo oltre il tempo, ma soprattutto oltre la nostra piccola, egoistica nozione di vita. Che crediamo appartenerci, che pensiamo diritto a sopraffare gli altri, che pensiamo come vessillo dell’accaparramento solitario di beni e potere, che immaginiamo intangibile.
Invece è fragile. Meravigliosamente fragile. Dobbiamo ringraziare che sia così, perchè duri come siamo, è facile pensare a cosa potremmo arrivare, se non fosse che anche un organismo microscopico, invisibile e intangibile come un virus mostra di poterci togliere tutto da oggi a domani. Di svelare la nostra insignificanza se non dentro una storia più grande. Facendoci accorgere che, sì: la primavera continua a ripetersi comunque.
Siamo portati a pensare che venga per noi, che in qualche modo ci appartiene, dovendo rispondere alla nostra sorprendente transitorietà. Se fosse così, sarebbe un disastro, con miliardi di primavere diverse e contemporanee, miliardi di tonalità del Sole che si adattano ai nostri accadimenti quotidiani.
La primavera, invece, ci fa accorgere che siamo unici, importanti, certo. Ma siamo parte di un disegno più grande la cui visione perdiamo in maniera direttamente proporzionale alla idolatria del nostro ego. Vivere con l’epidemia è l’unica strada senza scelta che abbiamo, facendo quello che è possibile per evitare il suo propagarsi, ma nella consapevolezza profonda che, su un piano più grande, non abbiamo un vero controllo su di essa. E su quelle che verranno.
E secondo me non è vero che la primavera non si accorge dei nostri drammi. Si perpetua sperando di restituirci una umiltà perduta, che sola può far sì che i fiumi di sofferenza da cui l’umanità viene periodicamente attraversata non siano, alla fine, inutili.
Lascia un commento