Navighiamo a vista in un mare di gadget tecnologici che promettono futuri di promesse false e convincenti, dissertiamo più o meno a sproposito su intelligenze artificiali di cui, nella maggior parte dei casi, non capiamo nulla, recitiamo ogni giorno sui social la parodia di vite immaginarie quanto stupide e tanto altro ancora che conforti la nostra percezione di essere a tutti gli effetti contemporanei, alla moda, allineati e beatamente anestetizzati di vuoto, parodie ‘credibili’ tra un blade runner di provincia e il tiktoker compulsivo.
Tuttavia siamo ancora ancorati alle mitologie, cui non riusciamo proprio a rinunciare, per quanto fittizie e strumentali.
Una di queste è la imparzialità senza macchia e senza paura, perfezione di una oggettività inesistente e tantomeno auspicabile per quanto mi riguarda. Non sono in alcun modo interessato alle diatribe cavillose e kafkiane di cosa sia il dovere di questa o quella figura istituzionale, di questo o quel funzionario. Figurarsi se questa figura è un magistrato. Responsabilità tremenda, ancora oggi non riesco a comprendere come un essere umano sia in grado di sopportarla, ma qualcuno lo deve pur fare.
Il caso Apostolico di questi giorni, il cognome certamente non aiuta nello sdrammatizzare la questione, è il segno del persistere di questi miti assurdi.
Nel mondo reale non si dà qualcosa come la imparzialità perfetta. Sarebbe un torto alla dignità del pensiero e del suo arbitrio. Si dice che un ruolo come quello del giudice impone l’astrazione dalle faccende umane quando si tratti di prendere posizione, e lo capisco solo nei termini di un criterio di facciata. La credibilità di un giudizio potrebbe risentire della manifestazione di questa o quella opinione da parte di chi deve pronunciarlo.
Si tratta di un mito il cui persistere rivela la arretratezza del nostro abito mentale e culturale chiamato ad affrontare questioni enormi come l’etica delle intelligenze artificiali. Il giudice, che piaccia o meno, è umano e assume costantemente posizioni rispetto agli eventi, come tutti noi, è naturale. Non deve mostrarlo? Sinceramente non credo che questa sia una questione di merito ma un circolo vizioso di convinzioni artificiose e strumentali da utilizzare per character assassination di quarta categoria. Nulla a che fare con la sostanza del problema. Il giudice non è più o meno obiettivo perché ha o non ha idee di parte. Sarà più o meno obiettivo perché lo è come persona con un particolare abito mentale, psicologico, e di valori.
Preferisco di gran lunga vedere un giudice esporsi rispetto a determinate questioni, nel caso, tra l’altro, profondamente intrise di dramma umano talmente simbolico da appartenere alla categoria dei diritti universali, che la ipocrisia di fingere imparzialità cui nessuno di buon senso può minimamente credere, neutralità ideologiche che in questo mondo, comunque la si metta, non sono contemplate. Qualcuno immagina una società in cui il compito del giudizio verrà affidato alle IA, credendo di garantirsi dalla soggettività dell’uomo e del suo limite. A questi rispondo che le IA saranno comunque preda di influenze che le distrarranno dal temibile quanto inesistente binario distopico della imperturbabilità, anch’esse mostreranno di prediligere un codice piuttosto che un’altro indirizzate verso algoritmi giustizialisti, garantisti o di altra sorta dal programmatore.
Chi parla di ‘opportunità’ dovrebbe riflettere su quanto la questione sia capziosa, utile a una politica che per risolvere le questioni umane si affida a mitologie insensate.
Marco Tarchi dice
Vedo un’indiscutibile coerenza in questo scritto: l’autore nega la rilevanza dell’imparzialità e difatti le sue parole sono tutt’altro che imparziali: anzi, sono un lasciapassare per l’impiego della faziosità nelle decisioni di giustizia. Semmai ci sarebbe stato da prendersela con l’ipocrisia di chi, esercitando con intenzioni politiche un ruolo che dovrebbe implicare una posizione super partes, si nasconde sotto il velo dell’autonomia del potere giudiziario.
Dino Cofrancesco dice
Non condivido una riga di quanto scrive Raul Gabriel. Vorrei però invitarlo a leggere le pagine di Max Weber sulla Wertfreiheit e a meditare su quanto scriveva Salvemini
“< Noi non possiamo essere imparziali. Possiamo essere soltanto intellettualmente onesti: cioè renderci conto delle nostre passioni, tenerci in guardia contro di esse e mettere in guardia i nostri lettori contro i pericoli della nostra parzialità. L’imparzialità è un sogno, la probità è un dovere».
Le stesse letture consiglierei all'ineffabile magistrato Apostolico.