Sulla cosiddetta ‘democrazia diretta’ gli equivoci, per non dire di peggio, si sprecano. Innanzitutto la si vorrebbe mettere in contrapposizione con la cosiddetta ‘democrazia rappresentativa’, ma così non è. Anche questa infatti nasce e si sviluppa grazie ad una garanzia continua di partecipazione dei cittadini. I parlamentari sono votati da tutti e il controllo del voto è esercitato periodicamente. Il nostro sistema, come ormai la quasi totalità dei sistemi costituzionali è basato sui partiti politici, cioè su istituzioni che dovrebbero fornire un canale sempre aperto ai cittadini per intervenire nella vita politica, inclusa ovviamente l’attività dei parlamentari che fanno capo a quei partiti.
Si obietterà che non è più così: le elezioni sono manipolate dai grandi mezzi di comunicazione, inclusi quelli digitali; i partiti sono conventicole e per i normali militanti non c’è praticamente spazio di intervento. Sia pure, ma perché l’aprire un altro canale di ‘partecipazione’ fuori da quelli previsti sin qui dovrebbe dare risultati diversi?
Se i promotori di certe sciocchezze avessero un po’ di cultura si potrebbe ricordare loro che già Ostrogorski a cavallo fra Otto e Novecento suggerì che contro i «partiti-macchina» dovessero affermarsi meccanismi che creavano aggregazioni ad hoc su singoli temi, in modo che queste aggregazioni fossero mobili, temporanee e cangianti nelle adesioni a seconda degli argomenti. Si sarebbe evitato il dominio dei politici di professione e invece il campo sarebbe stato libero per chiunque avesse idee da promuovere ed energie da spendere.
Funziona così solo nell’immaginario degli utopisti o nei sacri furori di quelli che ambiscono a fare i demagoghi. Andrebbe innanzitutto ricordato che il primo obiettivo della democrazia costituzionale è razionalizzare (e ‘raffreddare’) i percorsi attraverso cui si formano le decisioni politiche. Anche senza aver letto grandi testi di teoria politica basta il ricordo della rievocazione che Manzoni fa della peste per imparare che le ‘folle’ non sono i soggetti che danno più garanzie di analisi razionali dei fenomeni. Aggiungiamoci che in un’epoca di fantasie scatenate sul web come la nostra, dove si spacciano per ‘scientifiche’ le teorie più balorde, appare rischioso a dir poco mettere nelle mani di chi è allevato in questo clima armi per trasformare le proprie pulsioni in normative vincolanti. Per di più senza chiedere neppure che ci sia la garanzia di vedere convergere su quanto propongono le minoranze il consenso almeno di una maggioranza.
Il sistema del ‘government by discussion’ si è sempre fondato sulla convinzione che senza un confronto articolato in una sede addestrata a farlo non si possa produrre buon governo, cioè buone leggi. Certo oggi è lecito qualche dubbio sul fatto che certe corride parlamentari possano essere definite ‘discussione e confronto’ o che il personale che siede nelle istituzioni sia tutto in possesso di un addestramento almeno sufficiente per esercitare quel ruolo, ma non è aprendo nuovi fronti per allargare la partecipazione alla decadenza della funzione politica che si risolleveranno le sorti.
E poi, diciamoci francamente alcune cose. Davvero si pensa che una politica che possa consentire l’impero dell’agitazione permanente non distrugga quel contesto di condivisione dei destini di un paese e di stabilità nella vita associata che è essenziale per il progresso civile ed economico di una nazione? Nessuno ha pensato cosa significa mettere un paese nella condizione di scontri permanenti fra tifoserie opposte, scontri che addirittura possono espandersi sino alla promozione di un confronto fra un gruppo di agitatori e il parlamento se quest’ultimo non accoglie le loro proposte?
Infine: davvero nessuno ha in mente che per proporre un disegno di legge che stia in piedi, che non sia un semplice concentrato di slogan occorrono competenze particolari? Che per promuovere con successo un’ampia raccolta di consenso su una proposta occorrono mezzi di agitazione che non sono nella disponibilità di quella ‘gente comune’ a cui si vorrebbe fornire un accesso alla sfera della decisione politica diretta? Dunque la democrazia diretta non è un’apertura alla partecipazione dei cittadini, ma un regalo alle brame degli agitatori di professione o aspiranti tali.
Una democrazia nelle mani del professionismo politico di bassa lega (perché quello di livello sarebbe una grazia del Cielo) non sarà gran cosa, ma una democrazia trasformata nel campo dello scontro permanente dei demagoghi è molto peggio.
Dino Cofrancesco dice
«Davvero si pensa che una politica che possa consentire l’impero dell’agitazione permanente non distrugga quel contesto di condivisione dei destini di un paese e di stabilità nella vita associata che è essenziale per il progresso civile ed economico di una nazione? Nessuno ha pensato cosa significa mettere un paese nella condizione di scontri permanenti fra tifoserie opposte, scontri che addirittura possono espandersi sino alla promozione di un confronto fra un gruppo di agitatori e il parlamento se quest’ultimo non accoglie le loro proposte?»
Parole da incorniciare. Non va dimenticato, però che non è questo governo di dilettanti allo sbaraglio e di incompetenti (tranne qualche eccezione), la causa dei nostri mali ma una classe politica, che malgovernando da mezzo secolo, ha realizzato la profezia fatta da Leo Longanesi, quando dalla tribuna dei giornalisti vide i deputati della Prima Legislatura: «E pensare che un giorno ce li dovremo persino rimpiangere!». Vedere al capezzale della democrazia malata, dar saggi consigli, sputare dotte sentenze i teopompi—statisti(!), giuristi, economisti, political scientist—che sono stati la causa di tutte le sue infermità è spettacolo vomitevole.
Marta Regalia dice
Professore, apprezzo e condivido molto di quanto lei scrive, ma non posso non vedere trasparire una certa sfiducia (che per alcuni finisce nel disprezzo) per i nostri concittadini.
Questa sfiducia/disprezzo per le masse, anche quelle che si trasformano nelle folle di manzoniana memoria, è una delle principali cause della perdita di fiducia nelle istituzioni.
Io non ho paura dello scontro tra demagoghi (per riprendere una sua espressione), mi fanno molta ma molta più paura il disprezzo e l’apatia che a breve si trasformeranno, speriamo di no, in lotta contro i principi dello stato democratico di diritto.
paolo pombeni dice
Non disprezzo i cittadini, so solo che è facile manipolarli se non ci sono “cornici” che rendono difficile l’operazione. La storia è lì a rammentarcelo, sin dall’episodio evangelico sulla scelta fra Gesù e Barabba.