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Denatalità, famiglia e politiche

26 Settembre 2023 di Giuseppe Ieraci 3 commenti

Da una Presidente del Consiglio che si è proclamata paladina (oltre che della patria e di dio) della famiglia, non sorprende l’attivismo nel sostegno di quest’ultima. Di certo le famiglie nel mondo occidentale stanno cambiando fisionomia, non solo dal punto di vista della composizione di genere – che qui non mette conto discutere – ma anche demograficamente. Secondo l’Eurostat, su un totale di 4,07 milioni di nuovi nati nel 2020 nell’UE, il tasso di fertilità maggiore si registra in Francia (1,83 nati vivi per donna), seguita dalla Romania (1,80), dalla Cechia (1,71) e dalla Danimarca (1,68). I tassi di fertilità più bassi sono a Malta (1,13), in Spagna (1,19) e in Italia (1,24). La media UE nel 2020 si ferma a 1,5. Per completare il quadro, segnaliamo che il tasso è 1,56 nel Regno Unito, 1,58 in Australia e 1,64 in USA.

Le popolazioni dell’emisfero nord a partire dalla seconda metà del XX secolo hanno compreso che è opportuno contenere la crescita demografica per garantire il benessere, l’emancipazione della donna e le sue conquiste in tutti i campi hanno ovviamente favorito questo trend. Sappiamo però che così non è altrove: in Africa il tasso di fertilità, sia pure sceso in questi decenni, nel 2019 era pari a 4,8, con punte nei paesi a forte presenza musulmana, in Niger (6,89) e Nigeria (5,31). Nel Sud Est asiatico è sceso al 2,2 (Indonesia 2,19; Malesia 1,82; Singapore 1,10), in America Latina e Caraibi al 2,1 (dati della UN Population Division, World Population Prospects 2019). Anche l’India, come Iran, Vietnam, Bangladesh, ha recentemente annunciato di aver raggiunto un tasso di fertilità attorno a 2. I tassi di natalità di alcuni paesi asiatici nel 2020 sono ormai scesi sotto i livelli occidentali: Giappone 1,34, Cina 1,28 (tanto che le autorità cinesi cercano ora d’invertire il trend negativo), Corea del Sud 0,84. Secondo la rivista «The Lancet» (che riprende dati dell’Institute for Health Metrics and Evaluation), nel 2064 ci saranno 9,7 miliardi di persone e 8,8 nel 2100, dunque una frenata lenta che è cominciata verso al fine degli anni ’80 del secolo scorso.

Se guardiamo all’Italia, «The Lancet» descrive addirittura una catastrofe demografica: dai 60 milioni circa di abitanti attuali si scenderebbe nel 2100 a 28-31 milioni. Non è chiaro se in queste stime si tenga conto dell’impatto dell’immigrazione, cioè della crescita costante dei ‘nuovi Italiani’, che però è così temuta dalla nostra destra al governo tanto da suggerire misure per scongiurarla, quasi tutte centrate sul tema della natalità e di riflesso della famiglia.

Di recente ci sono state le prese di posizioni di Meloni sulla 194 («Daremo alle donne il diritto a non abortire»), vista più o meno esplicitamente come un fattore che contribuisce al calo della natalità. A parte l’inconsistenza logico-concettuale dell’espressione (un diritto ‘a non’, cioè un ‘non-diritto’, è giuridicamente un divieto), la lettura dei dati da parte della Presidente del Consiglio è incompleta o manipolatoria. Il Ministero della Salute, così come l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), utilizzano due indicatori distinti. Il ‘tasso di abortività’, che indica il numero di interruzioni volontarie della gravidanza (IVG) rispetto a 1.000 donne di età 15-49 anni, è risultato in Italia pari a 5,4 nel 2020 (con una riduzione del 6,7% rispetto al 2019). Il secondo indicatore è il ‘rapporto di abortività’, cioè il numero di IVG per 1000 nati vivi, che nel 2016 è in Italia pari a 182,4 con un decremento del 1,4% rispetto al 2015, e che nel 2019 (dati dell’OMS) è ulteriormente sceso a 170 per 1000 nati vivi. Questi dati sono tra più bassi a livello internazionale: si consideri che nel 2019 il ‘rapporto di abortività’ nell’UE è stato pari a 210 per 1000 nati vivi.

Introdurre il «diritto a non abortire» (divieto?) non è dunque la strada che può sensibilmente invertire il trend della denatalità italiana, perché l’incidenza dell’IVG sulla natalità stessa è trascurabile. Possono invece servire politiche di sostegno alla famiglia e in particolare ai redditi della famiglia? Difficile dirlo in prima battuta, anche perché il calo della natalità, come abbiamo visto, è generalizzato nel mondo e corrisponde a condizioni sociali e della donna oggi radicalmente mutate. Non è detto cioè che distribuire più reddito induca ad avere più figli, ma ci si può provare.

Senonché gli ultimi governi italiani, e sembrerebbe anche quello Meloni, hanno offerto un’incentivazione o sostegno ‘modello paghetta’, cioè l’elargizione di bonus assortiti, a tempo e una tantum, per es. «bonus secondo figlio» (progetto Meloni), «bonus diciotto» e «bonus Stradivari» (Renzi), «bonus bebè», ma anche detrazioni per i figli a carico, poi assorbiti dall’«assegno unico e universale», e ora nuovamente allo studio del governo in carica. Queste misure non sono strutturali e sono perciò poco incisive, nel senso che migliorano di poco o in modo trascurabile il benessere delle famiglie con figli. Ma soprattutto non tengono conto che (dati Istat) nel 2012 ben il 33,3 % delle famiglie italiane è composta da persone sole, il 19,8 sono famiglie senza figli, il 10,8 sono famiglie monogenitoriali e solo il 32,1 sono famiglie con figli. L’Istat stima che nel 2040 le famiglie con figli in Italia saranno scese al 23,9% del totale. La politica dei bonus non è un incentivo efficace per muovere queste famiglie ad avere figli.

Le ragioni che spingono gli italiani a non avere figli o averne forse uno per famiglia sono attitudinali e sociali, quindi difficilmente modificabili, ma viene da chiedersi se misure più incisive sui redditi degli individui non potrebbero invece avere un effetto di medio-lungo termine diverso. La Francia, che ricordiamo registra il tasso di natalità più alto nel mondo occidentale, ha da tempo introdotto il ‘quoziente famigliare’ per la determinazione della tassazione – per inciso, una proposta in Italia avanzata decenni fa da G. Fini. Le entrate (una o più) di una famiglia francese, sono sommate e poi divise per il numero dei componenti della famiglia stessa (il risultato costituisce appunto il quoziente familiare), in modo da tassare non tanto il reddito unitario percepito, quanto il reddito disponibile per ogni componente la famiglia. L’aliquota relativa a ciascuna ‘quota’ risulterà evidentemente più bassa di quella applicabile al reddito complessivo. In questo modo, avere figli conviene: più si è in famiglia, più si abbassa il ‘quoziente famigliare’.

Una misura di questo tipo avrebbe un effetto moltiplicativo sui redditi delle famiglie italiane e forse spingerebbe i giovani ad avere figli o – magari – ad adottarli, agendo sul quoziente famigliare e aumentando il reddito liberato dalla tassazione. Si tenga conto che, secondo Eurostat, se nel 2021 il salario lordo annuale medio nell’Eurozona era pari a 37.382€, con un picco in Germania (44.468€ all’anno), seguita poi da Francia (40.170€ all’anno), l’Italia segue molto dietro con 29.440€ all’anno. Nel 2023 le cose sono anche peggiorate, secondo l’Istat e Confindustria, perché lo stipendio medio italiano scende tra i 22.500 € lordi e i 28.500 € con una media di retribuzione mensile tra i 1.250 € e i 1.700 €.

La questione è dunque molto semplice: questi stipendi non bastano per supportare una famiglia e dei figli, né incentivano molto chi non li ha ad averli. Se gli stipendi non si possono aumentare ai livelli tedeschi e francesi, per le caratteristiche della struttura economica italiana (caratterizzata da piccole e medie imprese che non favoriscono la crescita della produttività), e se il loro aumento non è probabilmente giustificato dato il costo della vita ancora relativamente contenuto, la strada di una riforma fiscale sul modello francese (ma anche Germania e USA utilizzano sistemi di tassazione a ‘quoziente’) potrebbe liberare reddito per le famiglie e incentivare ad avere figli.

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Commenti

  1. Gianni Biondi dice

    22 Novembre 2023 alle 19:22

    La denatalità in Europa ha una lunga storia: utilizzare solo un dato sociosanitario (IVG) facendolo divenire rappresentativo del complesso fenomeno della denatalità non fa che aggiungere confusione a confusione; nega l’importanza di un’analisi dei dati che, seppur parziale, dà un importante spaccato di una realtà nella quale si sono sovrapposti vecchi fattori socio-finanziari mai seriamente osservati. All’attento e suggestivo contributo di Ieraci andrebbe interfacciato con gli altri molteplici aspetti che accompagnano la denatalità da quelli psicosociali, alle nuove identità in difficile formazione, ecc. Sarebbe interessante poter realizzare con l’importante contributo dell’autore un momento di incontro tra più studiosi per contribuire a dare a questo fenomeno una visione integrata e, forse, in grato di formulare delle proposte più efficaci.

    Rispondi
  2. Anna dice

    29 Settembre 2023 alle 10:20

    Sarebbe importantissimo usare un quoziente famigliare. Chissà se qualcuno al MEF o a Palazzo Chigi ha mai provato a fare i conti di una misura simile. Detto in giorni in cui si discute della modifica degli scaglioni Irpef ancora di più, ma anche questo annuncio chissà che fine farà. Se ne riparlerà, forse, ad approvazione del grande marchettone italico che è la finanziaria, pardon legge di bilancio.

    Oltre ai meccanismi di tassazione del reddito c’è un altro gigantesco elefante nella stanza, che é il tema relativo agli asili nido. Il nido fa lievitare i costi famigliari in modo esponenziale, e proprio nei primi anni in cui la creatura é finalmente venuta al mondo.

    Chi ha figli in Italia non spesso non sa fisicamente dove metterli al ritorno dalla maternità, al netto dei nonni, i pochi nidi hanno costi esorbitanti e si deve ricorrere a tate (straniere) varie. Quando si ammalano, i bambini o le tate, o entrambi, cioè spessissimo, poi é un casino. Per non parlare della difficoltà burocratiche da affrontare per regolarizzare e pagare queste forme di collaborazione. Ad esempio, 25 ore a settimana, che non bastano per un bambino, costano almeno 11.000 Euro all’anno + commercialista che gestisca malattia, ferie, ecc.

    A Berlino, invece, il nido (la Kita), é gratis. Devi iscrivere tuo figlio/a quando sei ancora al terzo mese di gravidanza con tanto di letterina e presentazione della famiglia all’asilo per averne uno vicino a casa, ma tutto ciò che paghi é un costo mensile irrisorio per i pasti.

    Rispondi
  3. Franco dice

    28 Settembre 2023 alle 16:00

    Finalmente un’analisi realistica e una proposta sensata.

    Rispondi

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