Sono uno strenuo difensore della didattica in presenza. Lo ammetto: il mio giudizio è sospetto, perché lascia trasparire un conflitto di interessi abbastanza evidente. Sono infatti convinto che la didattica in presenza faccia bene prima di tutto ai professori; poi, penso anche che faccia bene agli studenti, ma di primo acchito vorrei assumere la prospettiva particolare del docente.
In presenza egli ha modo di svolgere al meglio il proprio compito di tenere lezione di fronte a delle persone in carne e ossa, a studentesse e studenti che interagiscono e intervengono, certo prendendo la parola e chiedendo spiegazioni, ma spesso anche semplicemente assumendo una certa postura del corpo o attraverso sguardi di soddisfazione o al contrario di disorientamento.
È questa esperienza viva della lezione, mai predeterminata, anche se dal docente a lungo preparata con letture, approfondimenti, preparazione di schemi e materiali vari, che ti segna in profondità e che fa sì che quando entri in aula vi sia sempre un po’ di preoccupazione e di ansia. Difficile che questa esperienza viva, di conoscenza, di dialogo, di scambio comunicativo intenso possa svilupparsi nella didattica on line.
A scanso di equivoci, non intendo disprezzare i meriti delle modalità didattiche a distanza, che hanno permesso di ‘salvare’ il passato anno accademico, di fronte all’emergenza Covid-19. Con uno sforzo straordinario le diverse università sono riuscite ad offrire una proposta formativa di tutto rispetto, organizzando lezioni, seminari, laboratori on line.
Questa esperienza lascerà il segno nella comunità accademica italiana e in futuro non sarà possibile prescindere in toto dall’e-learning e dall’on line. La domanda che però ora dobbiamo porci è se misure eccezionali, efficaci nell’emergenza, siano valide anche in una vita accademica destinata lentamente – si spera – a recuperare e a consolidare una parvenza di ordinarietà, Covid-19 permettendo. E l’ordinarietà della vita accademica, dal secolo XI a oggi, ma a ben vedere anche prima, con appunto l’Accademia di Platone, il Peripato di Aristotele, la Stoa ecc., è fatta d’incontro vivo, di vicinanza, di relazioni tra studenti e docenti. Difficile, anzi impossibile, che questo incontro si possa dare attraverso gli schermi, con la visualizzazione di centinaia di volti inevitabilmente anonimi.
È per questo che è opportuno coltivare dei salutari dubbi verso le modalità didattiche on line, specie se qualche esperto ci viene a dire che sono più efficienti, più economiche, più comode. Se così intese, sono anche più standardizzate, come se il sapere fosse trasmissibile e riproducibile in modo unidirezionale, dal docente che parla in modalità cosiddetta sincrona di fronte a uno schermo muto composto di molte faccine, al docente che senza neanche più vedere le faccine carica il suo file audio nella piattaforma e gli studenti usufruiscono della lezione in modalità asincrona, ascoltandola da soli, al di fuori di un qualsiasi contesto relazionale di gruppo/classe, quando ne trovano il tempo.
La didattica on line può avere dei pregi e delle potenzialità solo se viene pensata e organizzata come integrativa e non come sostitutiva della didattica in presenza. Il primato di quest’ultima sta a indicare la centralità di quell’incontro, conoscitivo e formativo, fatto di corpi, di parole, di sguardi.
Da docente aspetto con trepidazione l’inizio delle lezioni in presenza e l’incontro con chi, guardandomi e illuminando il proprio volto mi dirà senza parlarmi: «Che bello questo passo di Aristotele o di Kant! Davvero interessante questo passaggio del testo, suggestiva questa figura…». Ma sono certo che non mancherà l’incontro con lo sguardo di chi, senza parlarmi, mi dirà: «Prof., non ho capito bene o forse Lei non si è spiegato bene: può ripetere questo argomento?». Al di là della mascherina, l’incontro con lo sguardo di chi partecipa alla lezione starà a ricordarmi che io ho bisogno, come dell’aria che respiro, del confronto vivo e diretto, reso possibile solo dalla didattica in presenza.
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