La nuova legge sul consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento è stata spesso discussa (sostenuta come una conquista di civiltà o contestata come una ferita insanabile all’essenza della relazione medico-paziente) per parlare in realtà di altro, almeno con riferimento alla prima parte del titolo. È sufficiente una rapida lettura al Codice di deontologia medica per rendersi conto che la legge non fa che ribadire l’interpretazione da tempo consolidata del divieto, sancito nell’art. 32 della Costituzione, di imporre a una persona un trattamento sanitario. Un medico già non poteva intraprendere o proseguire procedure diagnostiche o interventi terapeutici «senza la preliminare acquisizione del consenso informato o in presenza di dissenso informato», praticare l’accanimento terapeutico o collaborare a «procedure coattive di alimentazione o nutrizione artificiale» (artt. 35, 16 e 53). Da questo punto di vista, dunque, non c’è nulla di sostanzialmente nuovo. E per questo, come ho detto, sostenitori e oppositori hanno dato in molti casi l’impressione di riproporre temi e argomenti arcinoti per prepararsi a proseguire lo scontro su ciò che anche dopo questa legge rimane un reato: l’eutanasia (attiva) e il suicidio assistito. Gli uni guardando al provvedimento semplicemente come a un primo passo utile a ‘preparare il terreno’ per i successivi e gli altri mettendo in guardia l’opinione pubblica dal rischio incombente di un ‘pendio scivoloso’.
La vera novità della legge è la trasformazione delle dichiarazioni anticipate di trattamento, delle quali il medico già doveva tenere conto (art. 38 del Codice, che riprende l’art. 9 della Convenzione di Oviedo), in vere e proprie disposizioni, che egli è tenuto a rispettare. È vero che l’obbligo non vale se il paziente esige trattamenti contrari alla legge, alla deontologia professionale e alle buone pratiche clinico-assistenziali, ma l’eventuale, anticipato rifiuto assume in questo modo un valore vincolante al quale il medico può sottrarsi solo quando siano disponibili terapie capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento che non erano disponibili all’atto della sottoscrizione delle disposizioni o quando queste ultime appaiano «palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente» (art. 4, comma 5). Le polemiche si sono concentrate ancora una volta sulla questione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiali. Sarebbe stato e sarebbe forse più opportuno interrogarsi sulla opportunità di puntare in modo così netto al superamento della differenza fra volontà attuale e volontà espressa ‘ora per allora’. A quest’ultima può davvero corrispondere un dovere stretto di non offrire a una persona non più capace di intendere e volere trattamenti sanitari assolutamente ordinari e proporzionati? E se il riferimento alla «palese incongruità» sottende un dubbio proprio sulla risposta a questa domanda non sarebbe stato più corretto optare per un approccio diverso anziché inserire in un testo di legge un’espressione tanto vaga e ambigua?
Il diritto al rifiuto come parte del diritto all’autodeterminazione rispetto ai propri valori e alla propria visione della vita e dunque anche del momento in cui si ritiene che non valga più la pena di proseguirla grazie agli strumenti e al potere della medicina è adesso garantito in modo forte e chiaro. Per molti quello raggiunto è un buon punto di equilibrio, che però non basta e non può bastare – lo ripeto – per chi vuole di più e continuerà a chiedere che anche suicidio assistito ed eutanasia diventino un diritto. Sarebbe però bello e forse perfino doveroso approfittare di questo momento per riconoscere l’urgenza di un’altra sfida e chiedere un impegno comune per un altro diritto.
Papa Francesco, nel suo Messaggio ai partecipanti ad un convegno che si è svolto in Vaticano sulle questioni del fine-vita il 16 e 17 novembre 2017, ha sottolineato come grazie alla medicina siano state sconfitte molte malattie, sia migliorata la salute e si sia prolungato il tempo della vita, indicando poi due priorità per la riflessione etica. Una è quella che muove dalla consapevolezza che occorre un «supplemento di saggezza» per resistere alla tentazione di «insistere con trattamenti che producono potenti effetti sul corpo, ma talora non giovano al bene integrale della persona». L’altra è la disuguaglianza terapeutica favorita «dall’azione combinata della potenza tecnoscientifica e degli interessi economici»: trattamenti sempre più sofisticati e costosi «sono accessibili a fasce sempre più ristrette e privilegiate di persone e di popolazioni» e questa dinamica «è presente all’interno dei Paesi più ricchi, dove l’accesso alle cure rischia di dipendere più dalla disponibilità economica delle persone che dalle effettive esigenze di cura».
Papa Francesco, dunque, ‘tiene insieme’ la questione dell’accanimento terapeutico (che rimane ben distinta dall’affermazione della pura e semplice disponibilità della propria vita) e quella della disuguaglianza terapeutica. La seconda è praticamente scomparsa, con qualche rara eccezione, nei commenti e negli articoli che hanno ripreso questo intervento. Almeno in Italia. Nel nostro paese, evidentemente, il problema evidenziato dal Papa non esiste…
gioacchino dice
A me sembra che le differenze siano sostanziali, altro che: “ … non c’è nulla di sostanzialmente nuovo …”.
Prima l’attore principale era sostanzialmente il medico, con la nuova normativa il centro decisionale si sposta tutto sul paziente e sulla sua volontà, ed il medico deve rispettarne la volontà manifestata attraverso le DAT.
Non mi sembra poco.
Circa il discorso del Papa, che non conosco, da quello che leggo nel commento capisco che il tema è stato affrontato in riferimento alla complessità dell’argomento dal punto di vista delle situazioni che l’ordinamento deve tutelare a livello generale, al fine di rimuovere le differenze socio-economiche esistenti, ma se questo nulla toglie al discorso del Papa, per nulla incide sui casi concreti e le modalità nuove con cui debbono essere trattate dal medico le ipotesi di cui si discute.
gioacchino dice
A me sembra che le differenze siano sostanziali, altro che: “… non c’è nulla di sostanzialmente nuovo …”.
La nuova normativa sposta il centro decisionale dal medico al paziente. Prima era il medico che ” … non poteva intraprendere o proseguire procedure diagnostiche o interventi terapeutici …”. Adesso il medico non è più l’attore principale di queste decisioni. Deve rispettare le DAT espresse dal paziente e non può nemmeno rifiutarsi di farlo.
Se è poco.
Non conosco quanto espresso dal Papa nel convegno menzionato, ma da quello che leggo capisco che il Papa ha affrontato il tema relativamente ai problemi generali e non del singolo che si trova nella reale situazioni di dover disporre tramite le DAT delle sue volontà. Sono situazioni molto diverse, che nulla tolgono al pensiero del Papa ma che nemmeno incidono sull’argomento in discussione laddove ricondotto al caso concreto.
Carmelo Vigna dice
Condivido tutto e soprattutto la preoccupazione che viene a conclusione. Dal punto di vista di un’etica pubblica condivisa, il testo di legge approvato mi pare comunque un buon punto di equilibrio. Grazie, Stefano per la limpida riflessione.