Ai primi annunci dei risultati delle elezioni normalmente sorge immediato il dibattito sulle virtù dei vincitori e sui peccati dei vinti.
Per comprendere cosa stia succedendo nella politica italiana, forse è utile richiamare alla nostra attenzione le condizioni di sistema all’interno delle quali si iscrivono gli avvenimenti odierni.
Esse riguardano due elementi decisivi della trasformazione del sistema internazionale, la globalizzazione e la digitalizzazione. Questi da ragione di ipotizzato miglioramento dei rapporti economico-sociali si sono dimostrati anche causa di espropriazione e di redistribuzione del potere sia sul piano economico, sia sul piano politico. Redistribuzione del potere operata in modo differenziale, con effetti altrettanto differenziali sui mercati interni ed internazionali, sulla rilevanza delle varie istituzioni statali ed infine sulla qualificazione dei valori di riferimento delle comunità sociali.
Questo processo ha avuto nel ‘medio periodo’ come conseguenza non una armonica ricomposizione dei rapporti inter-economici ed inter-statali, ma un conflitto latente relativo ai rapporti fra le grandi potenze, che ha condotto a infausti eventi: un’emergenza sanitaria politicamente gestita, la guerra sul suolo europeo, il conflitto energetico e, in associazione con cause endogene dell’economia internazionale, l’emergere di rilevanti processi inflazionistici. Effetti particolarmente gravi per un Paese come l’Italia, caratterizzato da incertezze sul piano delle relazioni internazionali, da debolezza economica (debito pubblico) ed istituzionale causata da una grave impreparazione in ordine alle sfide europee e globali.
Il nostro Paese ha partecipato, infatti, alla apertura dei mercati interni in una condizione caratterizzata da una economia fondata sostanzialmente sulla piccola e media industria e da un sistema finanziario privato assai debole, avendo smantellato e non trasformato se non tardivamente il sistema dell’economia pubblica; ha mutato in modo parziale e senza un vero disegno gli assetti istituzionali.
Un simile stato di cose ha fatto sì che, se il settore economico italiano votato agli scambi internazionali, alla libera circolazione dei capitali e delle merci ha avuto la possibilità di usufruire delle trasformazioni globali, i settori legati alla finanza pubblica e al mercato interno hanno finito per trovarsi in una situazione di endemica crisi.
In una tale situazione la domanda di fondo dell’elettorato era inevitabile che dovesse riguardare, dopo un lungo periodo di sostanziale stagnazione, il ritorno allo sviluppo e all’efficienza delle istituzioni.
Una più rigorosa attenzione alle istanze della società italiana pur all’interno di un contesto europeo e occidentale.
In un simile contesto l’universo di cose, del quale si doveva tener conto, può essere illustrato mediante pochi riferimenti: una globalità non sufficientemente governata, una digitalizzazione facente riferimento ad interessi che esulano dalle aspettative delle singole nazioni, un europeismo ideologico universalistico, un quadro dei valori ispirato alla liberazione dai legami familiari e alla costruzione di un sistema di legami artificiali, un ideale del risparmio di natura individualistica quando esso è generato in maniera diffusa dal lavoro che esula dalle statistiche (che viene svolto soprattutto nella famiglia), un mondo del lavoro caratterizzato da disoccupazione o sotto-occupazione, da una flessibilità che in realtà si coniuga con nuove forme di sfruttamento, un mondo del commercio che ha visto chiudere migliaia di piccole aziende, una dissoluzione progressiva della classe media. Che sono i fenomeni tipici degli anni della progressiva crisi italiana.
Questa contraddizione ha fatto sì che l’universalismo abbia cessato di essere percepito come ciò che può aprire al futuro. E d’altro canto come poter perseguire valori di armonia universale ed europea nel momento nel quale l’armonia non riesce ad evitare guerre, conflitti, crisi? L’universalismo comincia ad apparire come uno strumento di conservazione degli assetti che hanno (forse inconsapevolmente) prodotto quei conflitti.
Curiosamente, la parte più tradizionale della odierna sinistra nel nostro Paese ha propugnato proprio quell’universalismo sovra-nazionale ed europeo che nel marxismo veniva criticato come copertura degli interessi egoistici delle classi dominanti.
Sul piano dei valori la liberazione dal principio di prestazione e dai doveri, della fine degli anni sessanta, si è convertita nella base etica di legittimazione dei processi dominanti di una economia globale capace di trasformare la gratuità delle nostre azioni digitali in lucro.
L’universalismo si è così trasformato in particolarismo e ha involontariamente generato il primato del valore universale della specificità, di una concreta condizione esistenziale, di un sistema politico-economico altrettanto specifico impropriamente detto nazionale. Cioè, ciò che è al fondo dell’attuale proposta di chi è prevalso, oggi, sulla scena politica.
In questa prospettiva i risultati della recentissima elezione sono particolarmente significativi. Se si confronta il programma di Fratelli d’Italia con quello del Partito democratico balza immediatamente agli occhi il fatto che il valore di fondo del secondo è una sorta di universalismo senza se e senza ma, mentre quello del primo è tutto profilato realisticamente non su una opposizione all’universalismo, ma sulla valorizzazione delle specificità delle esigenze del Paese, pur in rapporto dialettico con le istanze sovra-nazionali.
Non a caso i partiti che hanno riscosso un sicuro successo nella tornata elettorale sono stati quelli che hanno messo al primo posto i bisogni legati alla specificità del Paese: Fratelli d’Italia e, a sinistra, il Movimento 5 stelle. Sono stati i partiti più distanti dalle posizioni dell’attuale Presidente del Consiglio; cioè da colui che rappresenta icasticamente l’universalismo sovra-nazionale ed europeo.
È significativo che il medesimo elettorato capace di stimare nel modo più convinto in Mario Draghi la persona di valore e il più alto rappresentante delle competenze italiane, sul piano della prospettiva politica rivolta al futuro non veda il difensore dei propri bisogni.
Così, le elezioni il 26 settembre hanno finito per attribuirgli l’ariostesco verso «vivo corcossi e morto ci rimase».
Per converso il partito che ha la paternità di due iniziative spesso criticate proprio dal Presidente del Consiglio, il 110% e il reddito di cittadinanza, sembrava morto ed è ‘inaspettatamente’ risorto.
La ragione di una tale resurrezione sta proprio nel fatto che dal punto di vista economico i due provvedimenti hanno contribuito in modo concreto e rilevante a rilanciare il mercato interno. Con il 110%, pur con tutti i problemi, si è messo in moto un volano importante come quello del settore edilizio, con il reddito di cittadinanza si sono sostenuti i consumi nella parte più in difficoltà del Paese.
Analogamente, a destra, Fratelli d’Italia si è presentato da un lato come il partito che, denunciando i limiti dell’ordine internazionale ed europeo, ha aperto una prospettiva di cambiamento, da un altro lato come la formazione che ha avanzato la più realistica proposta di riforma fiscale, nonché l’ipotesi più credibile (in dialettica con la prospettiva europea) di strategia indirizzata ad un rilancio economico.
La Lega, viceversa, paga le ristrettezze del proprio localismo e l’errata impostazione del discorso sia sulle migrazioni, che sul regionalismo differenziato. Sulle migrazioni, perché non si è resa conto che paradossalmente proprio al nord le classi imprenditoriali richiedono surrettiziamente manodopera extracomunitaria; sul regionalismo, perché una parte del sistema produttivo, quello legato alle esportazioni, o tende a delocalizzare o non necessita di particolari tutele del proprio territorio.
La contrapposizione nord/sud, a sua volta, ha fatto perdere una occasione storica preziosa per affrontare razionalmente il problema di una ridefinizione delle ragioni di scambio di due tipi differenti di economia.
La questione regionale non doveva essere posta come rivendicazione di una specifica porzione del Paese; doveva essere posta insieme al problema della ridefinizione delle vocazioni dei due settori del nostro mercato; questione fondamentale che si trascina irrisolta da decenni e che contribuisce alla debole crescita del Paese.
Il Partito democratico, per terminare sui perdenti, si è presentato da un lato come il miglior interprete politico del rinnovato tipo di neo-capitalismo globale e conseguentemente come il paladino di un’etica della ‘liberazione dai valori tradizionali’ in un momento nel quale la stagione spirituale legata a quell’ordine economico si andava esaurendo; nel momento nel quale, cioè, si ponevano le basi della riaffermazione della rilevanza della famiglia come un sistema di difesa di condizioni sociali messe in pericolo.
Quel partito si è presentato, in sintesi, come partito dell’inevitabile declino, come unico soggetto in grado di governare quella lenta decrescita che si è ritenuta necessaria per far calare il debito pubblico.
Sulla base di una condizione del tutto inedita per l’Italia inizia, così, una legislatura che si svolgerà in un contesto nazionale ed internazionale del tutto diverso da quello della precedente. Il suo corretto svolgimento dipenderà soprattutto da due fattori: dal rapporto che la maggioranza sarà in grado di instaurare con i ‘vertici politici’, americani, europei ed italiano (Presidente della Repubblica), e dagli orientamenti della Lega e di Forza Italia. Quelli della prima dipenderanno dalla valutazione che sarà fatta riguardo alle proprie possibilità di crescita in caso di collaborazione leale o di opposizione latente. Quelli della seconda in base agli interessi europei e al destino politico (nel breve periodo) del capo del partito.
Una cosa è, però, certa. Il clima politico sia internazionale che nazionale tende al nuvoloso, perché l’espansione dei dominanti sistemi economico-politici è caratterizzata da un progressivo aumento della dissonanza.
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